In una situazione che vede ormai largamente superati i 100 milioni di casi e i 2,3 milioni di decessi, l’andamento della pandemia non sembra ancora arrestarsi o rallentare in modo significativo, colpendo tutti i paesi del mondo, anche se in modo diseguale. In effetti, anche se uno degli slogan diffusi nella fase iniziale del contagio era quello sulla presupposta “democraticità” del virus, con l’avanzare dei mesi ci si è resi conto che tale peculiarità non era così scontata: anche se è vero a livello teorico che il contagio non conosce barriere sociali, allo stesso tempo le persone che vivono al margine della società, prive di diritti, in condizioni abitative precarie, senza potersi basare su entrate economiche certe, hanno risentito maggiormente della Pandemia, scivolando ulteriormente in basso nella loro condizione sociale ed economica.
Mentre nelle società più avanzate il contagio non ha necessariamente attecchito con maggior virulenza presso le classi sociali più svantaggiate, in quanto la solidità dei sistemi di welfare mette al riparo un’ampia fascia di popolazione, altrettanto non è accaduto nelle periferie del mondo, ad esempio nelle favelas latinoamericane, dove l’accesso ai diritti e ai servizi è scarso, il sovraffollamento è diffuso, l’acqua non arriva nelle case o ci arriva a turni, è dove il virus ha trovato un più ampio terreno di proliferazione rispetto a quanto è rilevabile in contesti sociali economicamente più avanzati. E anche sul piano delle conseguenze socio-economiche delle misure di quarantena e isolamento sociale, il virus non è apparso egualmente democratico, andando a colpire maggiormente le categorie di lavoratori più esposti al rischio della precarietà e della irregolarità contrattuale.
Nel mondo più di 476 milioni di persone appartengono a popolazioni indigene. Si tratta di un raggruppamento pari al sei percento della popolazione mondiale. Nella sola America Latina sono presenti 522 popolazioni indigene.
I dati storici dimostrano che molte popolazioni indigene sono a maggior rischio di malattie infettive emergenti rispetto ad altre popolazioni.
Nel caso della pandemia da Covid-19, nell’intero continente americano, il numero di contagi tra le popolazioni indigene appare in deciso aumento. Nel dettaglio, al 14 gennaio 2021 sono stati segnalati 303.734 casi di positività tra le popolazioni indigene o comunità native, in 14 paesi delle Americhe (per i quali sono disponibili informazioni erogate in modo ufficiale dalle autorità sanitarie pubbliche). I decessi ufficialmente registrati sono stati 4.406. Dal primo dicembre 2020, si è registrato un incremento di 66.371 casi e 458 decessi. L’aumento più elevato per numero di casi e decessi si è verificato in Canada.
Quando si pensa alla diffusione del Corona virus tra le comunità indigene, il primo pensiero corre ai paesaggi naturali amazzonici, all’ecosistema fluviale o montano del Sudamerica, ai territori montani e degli altopiani andini, ecc. In realtà, i dati dimostrano che la fetta più consistente di popolazione indigenza coinvolta dal Covid si trova negli Stati Uniti d’America, che rappresentano il Paese con il numero più elevato di persone positive tra le comunità indigene: si tratta di 162.719 persone, pari al 53,6% dell’intero totale. Al secondo posto è presente il Brasile, con 38.909 persone positive, pari al 12,8% del totale continentale dei positivi. Seguono la Colombia (30.432 positivi, 10%) e il Perù (19.405 persone positive, 6,4%).
Il totale delle persone di origine indigena decedute a causa del Covid-19 è pari a 4.406 unità. Il paese americano con il maggior numero di indigeni deceduti a causa del Covid è il Messico, che da solo assomma al 44,6% di tutti i casi (1.965 persone scomparse). Seguono la Colombia e il Brasile rispettivamente con 970 e 496 morti.
Va sottolineato che in società con forti disuguaglianze come quelle presenti nella regione americana, la pandemia da Covid-19 si sta diffondendo rapidamente in America Latina e nei Caraibi con effetti a loro volta disuguali. Le vulnerabilità non sono le stesse per tutte le popolazioni indigene, che sono colpite in maniera diversa a causa delle notevoli differenze esistenti tra le diverse comunità, spesso sottaciute da una visione semplicista e superficiale, che vede tali realtà come un insieme unico e indifferenziato.
Come affermato da Francisco Cali Tzay, Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti delle popolazioni indigene, le popolazioni indigene nella regione americana sono colpite in modo sproporzionato dal Covid-19, sia per numero di persone che contraggono il virus che per esito di morte. Numerosi sono i possibili esempi. Nelle aree del bacino amazzonico, tra cui Roraima e Amapa, e nelle aree di confine della Guyana francese, le popolazioni indigene hanno una probabilità 10 volte maggiore di contrarre il Covid-19 rispetto ad altre popolazioni non indigene che vivono nelle stesse aree del grande bacino amazzonico. A causa di tale fattore differenziale di contagio, “la pandemia ha anche esacerbato il razzismo e lo stigma nei confronti delle comunità indigene, accusandole di non rispettare le misure di salute pubblica e incolpandole degli alti tassi di infezione”.
Il diverso grado di esposizione delle popolazioni indagine a contagi e decessi a causa della diffusione della pandemia da Covid-19 può essere riconducibile a due fondamentali categorie di rischio: le vulnerabilità interna alle comunità e le minacce provenienti dall’esterno.
Le vulnerabilità al virus consistono in una serie di fattori di debolezza endogeni e strutturali, che possiamo ritenere precedenti alla diffusione della pandemia da Covid-19 e che sono legati a vari aspetti di criticità socio-sanitaria. Una recente pubblicazione della Pan American Health Organization evidenzia alcuni di tali aspetti di debolezza: un tasso di povertà tre volte superiore rispetto alla media; un minore accesso ai servizi essenziali; una presenza di forza lavoro quasi esclusiva nel settore informale, dove mancano protezione sociale e i salari sono generalmente più bassi; livelli di scolarizzazione inferiori alla media-Paese; una maggiore incidenza di problemi di salute, con alti tassi di mortalità ed endemica presenza di malattie croniche e infezioni respiratorie, come così come la malnutrizione, comune e diffusa in molte popolazioni. Infine, va sottolineata la difficoltà di accesso alle strutture sanitarie: nonostante i diritti garantiti dalle varie legislazioni, il reale accesso e utilizzo dei servizi sociali e sanitari da parte delle popolazioni indigene non è di fatto pienamente garantito. Secondo i dati diffusi alla fine del 2020 dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro (ILO) e dall’associazione IWGIA (International Work Group for Indigenous Affairs), il 72% delle comunità denuncia in senso complessivo un certo grado d’inaccessibilità all’assistenza sanitaria.
Sono inoltre evidenziabili una serie di fenomeni e situazioni che minacciano dall’esterno la sopravvivenza delle popolazioni native e ne favoriscono l’esposizione al virus Covid-19. La principale forma di minaccia risiede nell’esposizione a contatti sociali esterni alle comunità. Molte comunità indigene, prese alla sprovvista dall’avvento della pandemia, sono fuggite dai centri abitati, spingendosi nel profondo delle foreste o in zone montane non facilmente accessibili. In tali luoghi non ci sono ospedali, né personale sanitario specializzato, e di fatto le famiglie vivono dimenticate dai governi locali e nazionali. Tuttavia, anche nel fitto della foresta non è completamente assente il rischio di contagio, in quanto tali aree sono spesso visitate da allevatori, taglialegna o altro tipo di manodopera impegnata in varie attività produttive o estrattive.
Una ulteriore forma di minaccia subita dalle popolazioni risiede nelle limitazioni al trasporto terrestre e marittimo, imposte da molti governi locali e nazionali, con la conseguente riduzione della domanda di lavoro e l’impossibilità di procurarsi beni essenziali, tra cui il cibo. Ricordiamo che la dieta di molte popolazioni indigene dipende dalla caccia e dalla pesca, in riferimento ad una base territoriale piuttosto ampia. Le misure di contenimento e di quarantena contrastano con tali pratiche, impedendo alle tribù di provvedere in modo autonomo al proprio mantenimento (e rendendo le stesse misure di contenimento molto difficili da attuare). La Pandemia, in diversi casi, ha colpito comunità indigene lontane dai loro luoghi naturali e originari di vita, sfollate a causa di conflitti interni, espropriazioni della terra e barriere nell’accesso alle risorse naturali, fattori piuttosto frequenti nella regione e che rendono le migrazioni interne un fenomeno piuttosto comune, anche nell’ambito di questo segmento specifico di popolazione.
Infine, l’esodo verso i centri urbani delle popolazioni indigene residenti nei villaggi in cerca di benefici sociali e cure mediche anti-Covid hanno provocato ulteriori focolai di malattie trasmissibili, contribuendo al sovraccarico di strutture sanitarie che non erano preparate ad un incremento di utenza (oltre che poco formate e preparate ad interagire con pazienti portatori di una cultura diversa).
All’interno del Dossier “Virus forte, comunità fragili”, disponibile sul sito di Caritas Italiana, oltre ad alcuni dati di sfondo, viene approfondito quanto sta accadendo tra le comunità e le popolazioni indigene del continente americano, evidenziando gli aspetti di vulnerabilità e le minacce a cui tali popolazioni sono sottoposte a causa della diffusione prolungata della pandemia e delle misure di contenimento sociale ad essa correlate. Nel Dossier vengono inoltre illustrate alcune esemplari forme di resilienza e risposta alle situazioni di crisi, messe in atto da tali popolazioni, sia in forma autonoma che mediante il sostegno di organismi nazionali e internazionali, tra cui la Caritas e le Chiese locali.