Un’occasione persa.
Potrebbe essere ricordata così COP24, la 24ma Conferenza delle Parti sul Clima delle Nazioni Unite che si è chiusa lo scorso 15 dicembre a Katowice in Polonia.
Era una conferenza tecnica, il cui obiettivo principale era la definizione del Rulebook, il regolamento necessario a rendere operativo l’accordo di Parigi che nel 2015 aveva riunito tutti i paesi nel comune impegno di contenere il riscaldamento globale rispetto ai livelli preindustriali possibilmente entro il +1,5° a fine secolo con una deadline fissata a 2 gradi, superati i quali i cambiamenti climatici rischiano di diventare irreversibili.
Dopo Parigi altre due conferenze, a Marrakech nel 2016 e a Bonn nel 2017, hanno gettato le basi per dare concretezza e attuazione a quell’importante accordo politico: per questo c’era molta attesa per l’incontro di Katowice che, a tre anni dall’Accordo sul Clima di Parigi, era chiamato a definire le regole per la sua attuazione.
Bene, il Rulebook è stato definito e sottoscritto da tutti gli stati (nei negoziati delle Nazioni Unite ogni decisione viene presa all’unanimità). All’interno delle sue 156 pagine le indicazioni per la revisione degli NDC, i contributi volontari in termini di riduzioni delle emissioni di CO2 che i singoli stati si impegnano a raggiungere per contrastare il cambiamento climatico, e soprattutto la definizione di un sistema di monitoraggio comune ispirato ai principi di Trasparenza, Accuratezza, Completezza, Coerenza e Comparabilità. Definiti inoltre i meccanismi per il trasferimento di fondi ai paesi in via di sviluppo per programmi di sostenibilità e di adattamento ai cambiamenti climatici. La Banca Mondiale ha inoltre stanziato 200 miliardi di dollari per cinque anni per finanziare politiche concrete contro i cambiamenti climatici.
Insomma, ora le regole ci sono e questa è un’ottima notizia visto che è proprio la mancanza di regole e meccanismi applicativi condivisi che può rendere inefficace un accordo politico ambizioso come quello di Parigi.
Quello che tuttavia preoccupa è il fatto che questa COP sarà ricordata anche come quella in cui la politica, o meglio certa politica, ha pubblicamente negato le evidenze scientifiche e in cui il fronte climatico, che a Parigi aveva scoperto una inaspettata unità, ha visto aprirsi una crepa importante.
Lo strappo si è consumato alla fine della prima settimana della conferenza, al momento di inserire tra i documenti alla base dei negoziati, il recepimento dell’ultimo report IPCC, il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici composto dai principali studiosi e istituti di ricerca sul clima.
Questo report, commissionato dalle stesse Nazioni Unite alla fine della Conferenza di Parigi del 2015, aveva il compito di comprendere cosa volesse dire contenere il riscaldamento globale entro 1,5° rispetto ai meno ambiziosi 2° e ci ha detto due cose.
La prima è che mezzo grado in meno di riscaldamento globale vuole dire evitare o limitare delle vere e proprie catastrofi ambientali. Con 1,5° nel 2100 l’innalzamento dei livelli del mare sarebbe inferiore di 10 cm rispetto ad un +2° (immaginiamo cosa voglia dire per i piccoli stati insulari del Pacifico), le barriere coralline diminuirebbero del 70-90% anziché sparire completamente e la probabilità che il Mar Glaciale Artico rimanga senza ghiaccio in estate si ridurrebbe a una ogni cento anni (anziché ogni dieci).
La seconda, e forse più importante, considerazione che ci lascia il report IPCC è che se vogliamo raggiungere l’obiettivo di contenere il climate change entro il grado e mezzo il tempo è meno del previsto: occorre metter infatti in campo una vera e propria rivoluzione energetica e produttiva in grado entro il 2030 di dimezzare le emissioni globali di CO2 rispetto ai livelli del 2010 per azzerarle completamente entro il 2050.
In parole povere l’IPCC ci dice che per salvare il pianeta va accelerata la morte dell’economia basata sulle fonti fossili, petrolio e carbone su tutte, per spingere un nuovo modello economico basato su energie rinnovabili ed economia circolare.
Ecco perché nel momento di stabilire se “prendere nota” o “dare il benvenuto” al report IPCC l’assemblea si è spaccata.
La questione non è meramente terminologica, anzi. “Dare il benvenuto” al report significa infatti accettarlo sia nelle sue basi scientifiche che nelle sue conseguenze pratiche il che vuol dire stop immediato alle emissioni di gas serra ai ritmi odierni e rapida uscita da petrolio e gas.
È per questo che quattro paesi, Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e Kuwait, sono rimasti fermi sulla posizione del “prendere nota”.
“Può bastare un presidente, eletto non dal Pianeta ma da un solo Paese, a devastare completamente un accordo di sopravvivenza per la Terra?” Si è chiesto il presidente di Earth Day Italia Pierluigi Sassi intervenendo sul tema all’interno della trasmissione Unomattina riferendosi in particolare alle posizioni del presidente americano Trump
Quattro paesi, di cui uno, gli Stati Uniti appunto, già fuori dall’accordo per volontà dell’amministrazione Trump, hanno paralizzato l’assemblea e, anche grazie alla timidezza di altri importanti stati come l’india e la Cina e all’ambiguità di Australia e Brasile (che con il neo eletto presidente Bolsonaro sul fronte climatico sta assumendo posizioni filotrumpiane) hanno fatto si che dal punto di vista politico COP24 sia stata una grande delusione.
Ribadiamo, il Rulebook è stato definito e questo era il principale obiettivo della Conferenza, ma il nuovo report IPCC aveva lanciato un nuovo importante grido di allarme e aveva dato alla comunità internazionale la possibilità di ribadire il proprio impegno con nuovi e più ambiziosi obiettivi.
Così non è stato, aggiornamento a fine anno in Cile per COP25 (che si sarebbe dovuta tenere in Brasile prima che Bolsonaro rinunciasse ad ospitarla) e poi al 2020 per una COP26 che l’Italia si è candidata ad ospitare e che si configura come una nuova deadline.
Una deadline che la vecchia economia tende a spostare il più avanti possibile per guadagnare tempo, quel tempo che però è la cosa che più ci manca per vincere la sfida climatica.