Contrariamente a quanto una lettura frettolosa del documento potrebbe far ritenere, il papa non è affatto contro la tecno-scienza, né contro l’imprenditorialità. Né è sua intenzione demonizzare l’economia di mercato. E come potrebbe farlo, se si considera che l’economia di mercato, come istituzione socio-economica, si forma nei secoli XIV e XV entro l’alveo del pensiero cattolico? Il fatto è che il discorso del papa ha un fondamento teoretico assai più solido di quanto una certa vulgata massmediologica vorrebbe far credere. La sua cifra è quella del realismo storico. Riallacciare conoscenza ed esperienza della realtà; far diventare il pensiero pratica di vita. Dunque, per papa Francesco il cristianesimo non può essere ridotto né a sola ortodossia – sarebbe questo il rischio dell’intellettualismo razionalistico – né a sola ortoprassi, a una sorta di pathos spirituale per “anime belle” alla ricerca di consolazione. Concretamente, questo implica che oltre al factum, ciò che l’uomo fa, c’è il faciendum, quello che l’uomo è in grado di fare in vista di un progetto storico nuovo. L’enciclica non cade nella trappola del biologismo, del naturalismo, né in quella dell’antropocentrismo. Il papa non si riconosce in una teoria sottile (“thin”) dell’etica, come è, ad esempio, quella della giustizia di John Rawls. Per questa, compito della politica è solo quello di garantire condizioni puramente negative, di assicurare cioè la libertà di scelta a ciascun individuo. Ma la libertà di scegliere non è la stessa cosa della libertà di poter scegliere: chi ignora, infatti, le proprie capacità non può nemmeno desiderare di realizzarle. Ecco perché papa Francesco si batte a favore di una teoria spessa (“thick”) dell’etica, cioè di un’etica del bene volta a realizzare tutte le capacità dell’essere umano per consentirne la piena fioritura.
Tante sono le singolarità di questo importante contributo di Dottrina sociale della Chiesa. Ne indico alcune. Innanzitutto, lo stile espositivo: uno stile accessibile a tutti, anche ai non iniziati. È la prima volta che in un’enciclica papale la tematica ambientale viene trattata come ecologia integrale, cioè non come un problema a se stante, seppure di grande rilevanza, ma come un problema che va letto sullo sfondo di un nuovo paradigma ecologico. Una seconda novità è il robusto fondamento scientifico dell’argomentazione. Soprattutto il cap. I contiene un esplicito apprezzamento del lavoro degli scienziati, naturali e sociali. Il documento papale si appoggia su dati certi delle scienze sia della terra, sia della vita. Infine le “linee di orientamento e di azione” contenute nel cap.V e anche nel cap.VI dicono del coraggio di questo papa e della sua prudente insistenza sull’urgenza del faciendum. L’uomo è chiamato – si legge nella Genesi – «a coltivare e custodire il creato» (Gen 2,15). Coltivare significa che è l’uomo a dover prendere l’iniziativa; non può restare in atteggiamento passivo rispetto ai ritmi naturali. D’altro canto, custodire implica che il pianeta va curato, non sfruttato. Infatti, custodire è sempre un accogliere.
Il grande tema dell’enciclica è ben reso dal suo sottotitolo: Sulla cura della casa comune. È l’ecologia integrale la chiave di volta del testo. Proprio perché il mondo è un ecosistema, non si può agire su una sua parte senza che le altre ne risentano. È questo il senso dell’affermazione secondo cui: «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio- ambientale» (Ls 139). Ecologia ed economia hanno la medesima radice – oikos – che designa la casa comune abitata dall’uomo e dalla natura. Ma da quando è iniziato l’Antropocene – termine coniato dal premio Nobel per la geologia Paul Jozef Crutzen – e cioè a partire dalla prima rivoluzione industriale nella seconda metà del Settecento, è accaduto che, con intensità via via crescente, la società degli umani ha buttato “fuori casa” la natura. Le sue risorse sono state selvaggiamente depauperate senza riguardo alcuno né alla loro riproducibilità, né alle esternalità negative che l’attività produttiva andava generando. Grave, in questo processo di sfruttamento, la responsabilità della scienza economica “ufficiale” che mai ha ritenuto – se non in tempi recentissimi – di tenere conto nei modelli di crescita del vincolo ecologico. Non solo, il mainstream economico ha fatto credere a schiere di ignari studiosi e di ingenui manager che il fine della massimizzazione del profitto di breve termine fosse la condizione necessaria da soddisfare per assicurare il progresso continuo. È in ciò la legittimazione – non certo la giustificazione – del vizio del “corto-termismo” (short-termism), che è stato anche uno dei fattori scatenanti la crisi finanziaria del 2007-2008.
Ebbene, è per tentare di raddrizzare questo “legno storto” della modernità che papa Francesco spende parole forti di denuncia nei confronti dell’imperante modello di crescita. Tre le tesi principali che vengono argomentate e difese nella Laudato si’. La prima è che lotta alla povertà e sviluppo sostenibile costituiscono due facce della stessa medaglia. «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme» (Ls 48). Come a dire che sono destinati all’insuccesso tutti quegli interventi fondati sul presupposto della separazione tra povertà e conservazione ambientale. Invero, se i paesi poveri temono accordi collusivi tra ambientalisti e neoprotezionisti dei paesi avanzati volti a limitare il loro accesso al mercato – è questa la preoccupazione eco-imperialista – gli ambientalisti del Nord temono, al contrario, che le misure di salvaguardia ambientale possano essere spazzate via dalla Wto (Organizzazione mondiale del commercio) favorendo una corsa al ribasso nella fissazione degli standard ambientali. Ciò consegue alla mancanza di una visione integrale che non consente di comprendere che la degradazione dell’ambiente e quella della società sono come le due facce della stessa medaglia. Scriveva alcuni anni fa S. Pastel: «Il sistema economico mondiale sembra incapace di affrontare insieme il problema della povertà e quello della protezione ambientale. Curare i mali ecologici della terra separatamente dai problemi legati a situazioni debitorie, squilibri commerciali, sperequazioni nei livelli di reddito e nei pattern di consumo, è come cercare di curare una malattia cardiaca senza combattere l’obesità del paziente e la sua dieta ricca di colesterolo». La seconda tesi è che l’ecosistema è un bene comune globale (Ls 23 e 174). Dunque, né un bene privato, né un bene pubblico. Ne deriva che né i tradizionali strumenti di mercato – dalla privatizzazione all’applicazione dei “permessi di emissione” (Ls 171) associati al nome di R. Coase – né gli interventi di pubblicizzazione a opera dei governi nazionali servono alla bisogna. Come si sa (o si dovrebbe sapere) i commons sono soggetti alle conseguenze devastanti tipiche delle situazioni note come “dilemma del prigioniero”: ciascuno aspetta di vedere le mosse dell’altro per trarne vantaggio, col risultato che nessuno muove per primo. Il fatto è che, mentre non esiste ancora una governance globale dell’economia, ci troviamo a fare i conti con un unico sistema climatico, con un unico strato dell’ozono, e così via. Si tratta, appunto, di beni comuni globali: l’uso di questi da parte di un paese non diminuisce l’ammontare a disposizione di altri paesi; d’altro canto, nessun paese può essere escluso dal servirsene (chiaramente, le emissioni di sostanze inquinanti rappresentano “mali” comuni globali).
Ora, come la teoria economica conosce da tempo, i beni comuni danno origine a una fastidiosa conseguenza, quella tipica di tutte le situazioni note come “tragedia dei commons”. E se il bene comune è globale, anche le conseguenze nefaste saranno globali. Nel 1990, l’Intergovernmental panel on climate change aveva dimostrato che le emissioni di gas serra avrebbero condotto ad un aumento della tempera- tura media, con tutte le conseguenze che ben si conoscono. Eppure, pochissimi paesi agirono, unilateralmente, per ridurre le loro emissioni. Analogamente, l’Unione Europea propose di introdurre la carbon tax in Europa, ma dopo aver constatato che l’esempio non veniva imitato da altri paesi (in special modo dagli Usa) provvide a mutare programmi. Sono proprio le caratteristiche del bene comune a rendere fallace l’unilateralismo come strategia di politica ambientale.
Non solo, ma anche qualora si riuscisse a giungere, per via negoziale, a una qualche forma di accordo o trattato internazionale, il problema che occorrerebbe pur sempre risolvere è quello dell’esecutorietà. Si consideri il caso del Protocollo di Montreal per regolamentare l’uso di prodotti chimici (i Cfc) distruttori dell’ozono e il caso del già ricordato Protocollo di Kyoto sul cambiamento climatico. Perché il primo ha funzionato e sta producendo gli effetti desiderati, mentre il secondo è sostanzialmente fallito, come si è detto sopra? La risposta è immediata. Il Protocollo di Montreal contiene un meccanismo di incentivi che è tale da favorire la partecipazione e l’adesione da parte di tutti i paesi sottoscrittori, un meccanismo cioè tale per cui è nell’interesse di ciascun paese stare alle regole pattuite. Non così, invece, col Protocollo di Kyoto i cui estensori non sono stati capaci di trovare un qualche meccanismo in grado di assicurare il self-enforcement dello stesso.
La terza tesi, infine, riguarda l’accorata difesa di papa Francesco della biodiversità economica. Un mercato che voglia essere e rimanere civile non può prescindere dalla pluralità delle forme d’impresa, in special modo non può fare a meno di lasciare spazio a quei soggetti che producono valore – e dunque ricchezza – ancorando il proprio comportamento a principi come quello di mutualità e di solidarietà intergenerazionale. Negare o impedire questo significherebbe rinunciare, irresponsabilmente, allo sviluppo umano integrale che, mai lo si dimentichi, comprende tre dimensioni (materiale cioè la crescita; socio-relazionale; spirituale) tra loro in rapporto moltiplicativo e non già additivo – come invece il mainstream economico va predicando.
Vi è una grave confusione di pensiero tra “omissioni del mercato” (ciò che il mercato non fa, ma che potrebbe fare) e “malfunzionamenti del mercato” (ciò che il mercato fa, ma fa male). È da tale confusione che ha tratto origine una prassi politica che anziché favorire interventi market including (quelli che mirano a includere tendenzialmente tutti nel processo produttivo), rea- lizza interventi market-excluding, quelli che non permettono l’inclusione dei surplus people, delle persone espulse perché irrilevanti e delle quali ci si occupa solamente con provvedimenti di tipo assistenzialistico. È scrutando con devota attenzione l’attuale scenario che papa Francesco suggerisce di adottare uno sguardo ecologico capace di porsi in relazione con tutte le dimensioni di valore e perciò capace di vedere il rischio di finire schiacciati da quel circuito mortale che combina l’aumento dell’efficienza (la potenza) dovuto alla tecnoscienza con l’espansione illimitata della soggettività (la volontà di potenza). Ecco perché occorre recuperare l’idea di limite ed ecco perché la ragion tecnica non è più una guida sicura per un modello di sviluppo umano integrale. Si tenga presente, infatti, che è l’unione di potenza e di volontà di potenza a generare la hybris che conduce al collasso.
Come anticipavo, il capitolo V della Laudatio si’ mira a suggerire «alcune linee di orientamento e di azione». La strategia accolta dal papa è quella della trasformazione delle strutture di potere oggi esistenti. Dunque, né la via della “rivoluzione”, né quella del mero riformismo sembrano al papa strategie all’altezza delle sfide in atto, anche se per motivi diversi. Lo spazio che ho a disposizione mi consente due sole suggestioni sulla linea che papa Francesco dimostra di privilegiare.
La prima concerne l’urgenza di dare vita a una Organizzazione mondiale dell’ambiente (Oma) sulla falsariga di quanto è già avvenuto, alcuni anni fa, con la costituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). […]
Ecco perché è necessaria una Oma: non si può continuare ancora a lungo in una situazione nella quale mentre il mercato, nelle sue plurime articolazioni, è diventato globale, l’assetto di governance è rimasto basicamente nazionale e, al più, internazionale. Vi sono oggi circa duecento Multilateral environmental agreement (Mea) nel mondo. Esempi notevoli sono il già richiamato protocollo di Montreal; la Convenzione sulla diversità biologica; la Convenzione sul commercio internazionale delle specie in via d’estinzione; la Convenzione di Basilea sui movimenti internazionali dei rifiuti tossici; il protocollo di Kyoto e così via. Ebbene, non v’è chi non veda come, in assenza di una Oma, questi accordi non riusciranno mai a divenire esecutivi: basta che un paese non ratifichi l’accordo siglato per svuotarlo della sua funzione regolatoria. Non solo, ma quel che è peggio è che nelle condizioni attuali i singoli stati nazionali hanno interesse a dare vita a “paradisi di inquinamento” (pollution havens) per acquisire posizioni di vantaggio competitivo nel commercio internazionale.
Tre i compiti prioritari che una tale organizzazione dovrebbe assolvere. Primo: interagendo con la Omc, questa agenzia deve cercare, da un lato, di rendere tra loro compatibili le regole del libero scambio e quelle preposte alla protezione ambientale, e dall’altro di farle rispettare da tutte le parti in causa. Secondo: una Oma deve intervenire, con ruoli di supplenza, in tutti i casi in cui – oggi sempre più frequenti – i segnali di prezzo non riescono ad anticipare le perdite ambientali irreversibili. Come sappiamo, esistono soglie di degrado ambientale tali che, fino a un certo punto, l’attività economica non blocca le funzioni rigenerative dell’ambiente, ma oltrepassato quel punto si possono determinare mutamenti irreversibili dovuti al fatto che il livello di attività economica sopravanza la capacità assimilativa dell’ecosistema. In situazioni del genere, i meccanismi di mercato si inceppano: di qui la necessità di una loro surrogazione ad opera di una agenzia ad hoc.
Infine, una Oma non può non affrontare di petto la questione degli ecoprofughi, cioè del riscaldamento globale come fattore generatore di nuovi flussi migratori. Secondo l’Unhcr, nel 2050 il mondo potrebbe ritrovarsi a gestire una migrazione forzata di 200- 250 milioni di persone che lasciano terre inaridite o completamente sott’acqua, oppure devastate da deforestazioni e surriscaldamento. Tra il 1997 e il 2020, nella sola Africa sub-sahariana le stime parlano di 60 milioni circa di migranti forzati, di persone cioè che pur volendo non sono in grado di restare dove sono. È questa una tragica conseguenza del land grabbing (accapparramento delle terre). Eppure, né la Convenzione sul cambiamento climatico, né il protocollo di Kyoto contemplano misure per l’assistenza e/o protezione di coloro che sempre in maggior numero saranno colpiti dagli effetti dei mutamenti nel clima. Ancor’oggi, i migranti per ragioni ambientali non rientrano in nessuna delle categorie contemplate dal quadro giuridico internazionale. Se dunque non si vuole continuare con l’attuale politica miope della militarizzazione dei confini – negli Usa il budget per il controllo dei confini è passato da 200 milioni di dollari all’anno nel 1993 agli attuali 1,8 miliardi; eppure, i clandestini sono raddoppiati, passando da 5/6 a 12 milioni – è indispensabile dare vita ad una Oma con poteri e risorse adeguate.
La seconda suggestione cui poco sopra facevo riferimento è quella rivolta alla trasformazione della finanza. La finanza è uno strumento con potenzialità formidabili per il corretto funzionamento dei sistemi economici. La buona finanza consente di aggregare risparmi per utilizzarli in modo efficiente e destinarli agli impieghi più redditizi; trasferisce nello spazio e nel tempo il valore delle attività; realizza meccanismi assicurativi che riducono l’esposizione ai rischi; consente l’incontro tra chi ha disponibilità economiche ma non idee produttive e chi, viceversa, ha idee produttive ma non disponibilità economiche. Senza questo incontro la creazione di valore economico di una comunità resterebbe allo stato potenziale. […]
Mai come nel caso dell’evoluzione della finanza negli ultimi decenni è stato così chiaro che i mercati, soprattutto laddove i rendimenti di scala sono crescenti, non tendono affatto spontaneamente alla concorrenza, ma all’oligopolio. Invero, il graduale allentamento di regole e forme di controllo (come quella della separazione tra banca d’affari e banca commerciale) hanno progressivamente condotto alla creazione di un oligopolio di intermediari bancari troppo grandi per fallire e troppo complessi per essere regolati. Il sonno dei regolatori ha dunque prodotto un serio problema di equilibrio di poteri per la stessa democrazia. Il rapporto 2014 di Corporate Europe1 evidenzia lo squilibrio dei rapporti di forza tra le lobby finanziarie e quelle della società civile e delle Ngo: la finanza spende in attività di lobby trenta volte di più di qualunque altro gruppo di pressione industriale (secondo stime prudenziali 123 milioni di euro l’anno, con circa 1700 lobbisti presso l’Ue). I rapporti tra rappresentanza delle lobby finanziarie e rappresentanza delle Ngo o dei sindacati in gruppi di consultazione sono 95 a 0 nello stakeholder group della Bce e 62 a 0 nel De Larosière Group on financial supervision in the European Union.
Questa posizione dominante della finanza in termini non solo di potere di pressione, ma anche di facilità di accesso alle informazioni, alle conoscenze e alle tecnologie ha consentito ai manager dei grandi oligopoli finanziari di appropriarsi di enormi rendite a scapito di tutti gli altri portatori d’interesse. A conferma di come tutto questo produca una distorsione nell’utilizzo delle risorse sta il recente abbandono di progetti di infrastrutture che consentirebbero una migliore mobilità di mezzi e persone e la recente realizzazione di un tunnel tra New York e Chicago costato centinaia di milioni di dollari per ridurre di tre millisecondi i tempi di trading di alcuni operatori che, attraverso la posa del cavo, realizzano un vantaggio informativo a danno di altri. I disastri prodotti da questa finanza sono sotto gli occhi di tutti. […]
Una domanda, prima di concludere: «Come tutto questo è potuto accadere? Qual è la radice profonda?». La risposta esige un chiarimento che quasi mai viene fatto. Nell’ottobre 1829 il celebre cattedratico di economia all’Università di Oxford, Richard Whately, introduce, per primo tra gli economisti, il principio del Noma (Non overlapping magisteria, i magisteri che non si sovrappongono): l’economia se vuole diventare una scienza rigorosa deve separarsi sia dall’etica, sia dalla politica. Questa la divisione dei compiti: la politica è il regno dei fini che la società intende perseguire; l’etica è il regno dei valori che devono guidare il comportamento umano; l’economia è il regno dei mezzi più efficaci per conseguire quei fini nel rispetto di quei valori. In quanto tale, l’economia non ha bisogno di intrattenere rapporti con le altre due sfere. Tutto il pensiero economico succes- sivo – con qualche rara seppure notevole eccezione – ha accolto il principio del Noma e pour cause. Tuttavia, a partire dall’avvento del- la globalizzazione (fine anni Settanta del secolo scorso) si realizza, gradualmente, un’inversione radicale di ruoli: l’economia diviene il regno dei fini e la politica il regno dei mezzi. Ecco perché, come tutti gli osservatori non mancano di notare, oggi la democrazia è al servizio del mercato. L’aveva capito, in anticipo sui tempi, l’influente presidente della Bundesbank, Hans Tietmayer, quando nel 1996 scrisse: «A volte ho l’impressione che la maggior parte dei politici non abbia ancora capito quanto essi siano già oggi sotto il controllo dei mercati finanziari e siano persino dominati da questi». C’è forse bisogno di aggiungere altro? (Oggi, anche Alan Greenspan, presidente della Fed per tanti anni, esprime il medesimo concetto nel suo libro del 2013, The map and the territory, The Penguin press).
Ebbene, papa Francesco non accetta una tale “divisione di ruoli”. La politica deve tornare ad essere il regno dei fini e tra le tre sfere anzidette deve instaurarsi un rapporto cooperativo e di mutuo rispetto. Deve bensì esserci autonomia, ma non separazione tra di esse. Tenendo sempre presente che l’etica cattolica è fondata sul principio (aristotelico-tomista) del primato del bene sul giusto. La giustizia ha senso se è finalizzata al bene; diversamente rischia di divenire giustizialismo. Come sappiamo il pensiero dominante non accetta questa visione. Per esso la norma origina solo dal consenso delle parti in causa, le quali non hanno alcun bisogno di riferirsi alla nozione di vita buona. L’agire economico viene così fondato sul principio secondo cui consensus facit iustum, proprio come esige l’impianto dell’individualismo libertario, oggi egemone.
«Tutta l’idea del mare è in una goccia d’acqua», diceva B. Spinoza: l’idea tutta dell’attuale “disagio di civiltà” è espressa da uno qualsiasi dei punti toccati nell’enciclica. Ecco perché è necessario – ci raccomanda la Laudatio si’ – cambiare in fretta la nostra capacità di sguardo sulla realtà.