Ridurre la forbice della disuguaglianza sociale puntando sulla produzione di cibo e quindi sulla sostenibilità economica, puntare alla risoluzione del conflitti e quindi alla riduzione della migrazione interna è possibile.
E’ il caso del Vicariato del Pando, regione amazzonica boliviana, nord est del paese, confine con il Brasile, retto da mons. Eugenio Coter, già fidei donum italiano. Mons. Coter è vescovo in questa regione amazzonica da 5 anni e in questi anni ha continuato quello che il suo predecessore, l’americano Luis Morgan Casey, ha messo in piedi: lavorare con i campesinos, con le comunità indigene. Gli impresari e l’agro-business stanno riducendo la foresta al ritmo di 1 ettaro ogni minuto a suon di ruspe e motoseghe. Cifra pazzesca, vuol dire che in 70 anni non ci sarà più foresta ma solo una immensa distesa di pampa arida, nemmeno adatta all’allevamento. “Dimostrami che un ettaro di foresta in piedi vale più di un ettaro di soia o di allevamento del bestiame” dice l’agro-business alla comunità campesina.
La risposta dal punto di vista economico è scontata, ma dal punto di vista etico e di futuro sostenibile è inaccettabile, afferma mons Coter. Ci porta a Guayaramerin, confine con il Brasile, dove la Caritas del vicariato da 5 anni porta avanti un progetto agro-forestale. Dove un tempo c’era la foresta ora c’è pascolo, per recuperare la foresta e per dare futuro alle comunità di campesinos si agisce su più fronti: il pascolo e la riforestazione. Il pascolo con vacche non da carne ma da latte, in modo da garantire la sicurezza alimentare della comunità, il reddito dalla vendita del latte e il reddito della cane della mucca alla fine del ciclo produttivo. In 5 anni le mucche da 7 sono diventate 30, per un valore accumulato di due mucche per famiglia della comunità. Il lavoro si fa comunitario: le 15 famiglie si alternano nell’allevamento, nella mungitura, nella custodia. E poi il lavoro di riforestazione, complesso, perché la foresta deve dare guadagno. Quindi non solo piante da legname, ma anche castagna (che qui si chiama almendra), cupuaçù, açai, banane, agrumi. Un problema è la siccità perché la deforestazione porta ad un abbassamento clamoroso del livello di umidità che passa dall’80 al 30%, con conseguenze che mentre fino a dieci anni fa fuori dal tempo delle piogge (novembre-aprile) rimaneva un’umidità garantita del terreno, e ogni tanto qualche pioggerellina, adesso da maggio a ottobre non piove e tutto inaridisce. Con il risultato che la paglia diventa combustibile perfetto per il divampare degli incendi, sospinti dai venti che arrivano da sud e che non trovano più nessuna barriera naturale. Il problema degli incendi, alcuni causati dagli agricoltori per pulire i terreni e che scappano di mano, alcuni provocati dall’ incuria della gente di passaggio, è enorme oggi nell’Amazzonia boliviana.
La scansione produttiva per recuperare la foresta in maniera economica, permettendo quindi alle comunità di rimanere nella propria terra, è molto precisa. Si inizia con le piante di banano e agrumi che in pochi mesi arrivano a dare frutto. Tra l’altro queste piante hanno anche un’azione fondamentale, quella di ombreggiare il terreno facendo morire l’erba e abbassando la siccità del terreno. Nel mentre il banano sostiene la famiglia, inizia la produzione del cupuaçù, ottimo frutto per succhi e bevande. Poi è la volta dell’açai, altro ottimo frutto, e mentre tutti questi danno reddito cresce la castagna, l’almendra, vera e propria ricchezza della regione. Il 70% dell’economia del Pando boliviano è sostenuta dall’almendra che arriva nei nostri supermercati con il nome di castagna del Parà. Nel frattempo le piante da legname della foresta crescono, come la mara (il mogano) il cedro, ma ci vogliono 15-20 anni per portarle alla commercializzazione. Con queste cresce anche la palma reale, che ha il compito di portare l’acqua in superficie creando microclimi con l’umidità necessaria alla maturazione dei frutti. Il 4 anni di programma agro- foresale, dice Vincente Vos, biologo del programma di sviluppo sociale SIPCA dei gesuiti, la valorizzazione della parcella di terreno assegnata alla comunità indigena o campesina diventa molto interessante. “Se una parcella di foresta distrutta dall’agro-business per la soia o per l’allevamento dura qualche anno e poi si trasforma in pampa arida buona solo come combustibile per gli incendi, inquinata dalle tonnellate di veleni usati per ottenere produzioni importanti, noi con i nostri metodi preserviamo la foresta, la utilizziamo economicamente in modo tale che una comunità possa vivere e svilupparsi, e soprattutto non senta il desiderio di lasciare la foresta per trasferirsi nelle periferie delle grandi città”. “Come far capire all’agro-business che pianto una pianta perché mi fa stare bene, perché mi fa vivere bene?” A questa domanda, continua Vincent, non c’è risposta!”.
Il problema rimane la commercializzazione dei prodotti: a questo sta rispondendo la cooperativa IPHAE, in collaborazione con Madre Tierra, una impresa sociale che ha come soci gli stessi produttori di cocuaçu e açai. Fortunato Angola e Cristiano Noko, presidente e amministratore e ci spiegano come funziona: prendono il prodotto dai contadini che sono soci di queste realtà, lo lavorano, lo conservano e lo immettono nella distribuzione fatta da centinaia di piccoli punti vendita nei quartieri delle città del Vicariato. Ma il sogno è arrivare lontano, a Santa Cruz o a La Paz: ci sono 700 km da superare con strade difficili e soprattutto con camion adatti alla refrigerazione per conservare il prodotto.
Il sogno deve ancora diventare realtà. Papa Francesco a Puerto Maldonado nel gennaio scorso, continua mons. Coter, “ha ricordato che è tempo di superare la visione dell’Amazzonia come dispensa da cui attingere per i favori di qualcuno. Quando la pensiamo in questo modo la distruggiamo e distruggiamo la vita delle persone che ci abitano. Dobbiamo imparare a pensare l’Amazzonia con una scala di valori che nascono alla luce del vangelo e che non pone l’economia al primo posto ma lo star bene, il “ben viver”. Ovvero una vita di relazioni che aiutano a superare i conflitti delle terre e costruiscono giustizia sociale, che offrono opportunità di vita. Poi sicuramente dobbiamo imparare a contemplare la bellezza di questa creazione, ringraziare il Signore di questi doni e metterli a disposizione di chi vuole venire a conoscere l’Amazzonia, a fare esperienza non solo di natura ma di vita inserita nella natura, non tanto in un contesto di poesia ma di vera maturità umana che cerca l’equilibrio dentro tutto questo. Ricordava il Papa: facciamo uno scandalo quando sparisce una specie animale, ma se spariscono interi gruppi etnici nessuno ne parla”.