È nel 1992, durante la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e sullo sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro che appare la prima definizione di Biodiversità. Di fatto, ”Per diversità biologica si intende la variabilità degli organismi viventi, degli ecosistemi terrestri, acquatici e i complessi ecologici che essi costituiscono; la diversità biologica comprende la diversità intraspecifica, interspecifica e degli ecosistemi” [1].
La biodiversità, nel suo senso globale, è di fondamentale importanza per la vita dell’uomo per il sostentamento, la salute e il benessere. In modo più specifico la biodiversità fornisce servizi ecosistemici necessari per la conservazione di risorse idriche, gestione del suolo, ciclo delle sostanze nutritive, assorbimento e trasformazioni degli inquinanti, stabilità del clima e molti altri ancora; inoltre fornisce risorse biologiche come ad esempio cibo, mangimi, prodotti forestali, oltre ai differenti benefici sociali. È chiaro che la perdita della biodiversità rappresenta un evento di carattere catastrofico: di fatto questo implicherebbe la perdita di elementi e relazioni naturali indispensabili alla sopravvivenza, plasmati durante milioni di anni di evoluzione.
L’accelerazione delle dinamiche di squilibrio socio-politico, economico-finanziario ed ambientale, a cui i sistemi territoriali sono stati esposti in questi ultimi decenni, ha portato a un’esigenza sempre maggiore di sviluppo di modelli alternativi resilienti per proteggere la biodiversità ed affrontare le diverse crisi caratterizzanti la nostra epoca.
In The Global Risks Report 2013 del World Economic Forum, la resilienza è definita l’unica reazione sana in un mondo sempre più interdipendente e iperconnesso, l’unica via di uscita per riprendersi, più velocemente possibile, dopo i fallimenti ambientali ed economici degli ultimi anni. Ecco perché – più che una semplice parola – la resilienza è diventata una definizione operativa, un progetto di trasformazione costruttiva, la ricerca e l’approdo verso un nuovo modo di pensare [2].
Di fatto la resilienza esprime la capacità di un sistema sociale di affrontare il cambiamento senza perdere la propria «identità», di equilibrare e ri-equilibrare nel tempo il rapporto tra natura e cultura, tradizione ed innovazione senza precludersi alle trasformazioni ma mantenendo sempre salde le proprie radici, la propria storia, il tessuto connettivo che sostiene la vita quotidiana, gli scambi sociali, il sistema simbolico della collettività[3]. In ambito rurale la resilienza è l’approccio con cui una comunità affronta il cambiamento, mantenendo inalterati quei caratteri identitari che per secoli hanno garantito la sostenibilità della campagna, applicando modelli agro-ecologici per la produzione di cibo che preservino la ricchezza dei suoli, degli ecosistemi ed il benessere delle persone, diventando così i custodi della biodiversità. Questo permette alle famiglie di resistere e riprendersi dai disastri ambientali come alluvioni, siccità o conflitti, riducendo la sofferenza umana e l’impatto economico. La resilienza, e a sua volta l’agro-ecologia, promuovono un nuovo approccio di vita, basato e costruito sul concetto di locale in quanto, oltre ad essere risposta, è anche prevenzione della crisi ambientali e sociali. L’agricoltura familiare è la protagonista indiscussa di questo processo, poiché cerca di preservare i prodotti alimentari tradizionali, contribuendo a un’alimentazione equilibrata e difendendo, a livello mondiale, l’agrobiodiversità e l’utilizzo sostenibile delle risorse naturali. La conoscenza approfondita della propria terra e la capacità di gestirla in modo sostenibile, permettono ai piccoli agricoltori di migliorare molti servizi ecosistemici, trasformandosi così in un’opportunità per rafforzare le economie locali, soprattutto se associate a politiche specifiche destinate alla tutela sociale e al benessere delle comunità.
Gli agricoltori, in quanto sovrani dell’agricoltura, delle sementi, delle risorse naturali e della conoscenza tradizionale, riducono la loro dipendenza dal mercato attraverso l’applicazione di sistemi agricoli che diventano ecologicamente, socialmente ed economicamente sostenibili. In questo senso l’agricoltura industriale non ha solo contribuito a danneggiare l’ambiente, ridurre i nutrienti nelle colture, aumentare i problemi di salute, incidere pesantemente sul cambiamento climatico, ma ha anche tentato di schiacciare modelli alternativi di produzione agroalimentare. Inoltre, nonostante la sfida di produrre abbastanza cibo per tutti sia stata vinta da questo sistema, le statistiche dimostrano i limiti intrinsechi del sistema alimentare attuale, con l’impossibilità di garantire l’accesso ad un cibo sano per tutti. Secondo gli ultimi dati Fao il numero di persone che soffrono la fame nel mondo è tornato ad aumentare, passando dai 795 milioni del 2015 a 815 del 2016 (11% della popolazione mondiale). Il dato più allarmante riguarda sicuramente l’Africa Sub-Sahariana, dove si registra, in termini percentuali, il valore più elevato. Infatti, il 20% della popolazione (243 milioni di persone) soffre la fame. Le principali cause di questo aumento sono proprio i violenti conflitti e gli shock climatici [4]. Inoltre, 155 milioni di bambini sotto i cinque anni – un quarto del totale – è affamato, mentre 55 milioni soffre di malattie mortali dovute alla denutrizione [5]. Non solo: 2 miliardi di persone soffrono di “fame nascosta”, ossia della mancanza di micronutrienti fondamentali come zinco, ferro, vitamina A, iodio e un terzo delle donne in età riproduttiva soffre di anemia, mettendo a rischio anche la salute dei propri bambini. Infine, 1.9 miliardi di persone nel mondo sono sovrappeso, delle quali 650 milioni sono obese, una cifra che potrebbe raggiungere i 3.3 miliardi di persone nel 2030 [6]. Questi dati dimostrano come siamo ben lontani dal raggiungere uno degli obiettivi più ambiziosi del MDG: la riduzione della fame e dell’insicurezza alimentare e nutrizionale dal mondo entro il 2030. I danni ambientali prodotti da un sistema e da politiche sconsiderate mettono in discussione la capacità dei nostri ecosistemi di produrre abbastanza cibo per sfamare una popolazione mondiale che nel 2050 avrà superato il 9 miliardi di persone [7]. L’unica reale risposta rimane quindi l’agricoltura familiare.
Di fondamentale importanza è inoltre il coinvolgimento dei cittadini che hanno un ruolo essenziale nell’orientare l’industria agro-alimentare. Si pensi ai GAS, esperienze di acquisto collettivo, attraverso cui consumatori auto-organizzati hanno come obiettivo principale l’adeguamento dei propri consumi a una logica di sostenibilità ambientale e di compatibilità sociale.
Ad oggi è chiara come sia necessaria una nuova rivoluzione sociale e ambientale, che parta dal basso attraverso l’unione degli agricoltori e di ogni singolo cittadino per contrastare le disuguaglianze che l’attuale sistema alimentare sta perpetuando, per frenare l’inarrestabile perdita di biodiversità e garantire la sovranità alimentare a tutti i popoli. Solo con l’unione e la consapevolezza si potrà salvare il nostro pianeta e invertire le dinamiche di potere a favore dei più deboli.
[1]UN, Convention on Biological Diversity , 1992 https://www.cbd.int/doc/legal/cbd-en.pdf
[2] Martin-Breen, P. Anderies, Resilience: A Literature Review’ Bellagio Initiative, Brighton, 2011
[3]Capineri C., Celata F., de Vincenzo D., Dini F., Randelli F., Romei P. ( a cura di), Memorie Geografiche: Oltre la Globalizzazione. Resilienza/Resilience, Società di Studi Geografici, Firenze, 2014 http://www.societastudigeografici.it/pdf/Memorie_Geografiche2014.pdf
[4] FAO, State of Food Insecurity in the World. Building resilience for peace and food security, 2017.
[5] ActionAid, Nutrition at stake Tackling the nutrition crisis through women’s rights, agroecology and the right to food, 2017 https://www.actionaid.it/app/uploads/2017/11/Nutrition_at_stake_2017.pdf
[6] Ibidem.
[7] Actionaid, Rising to the challenge: Changing Course to Feed the World in 2050, 2013.