Da muratore ad educatore. La storia di Mario Mazzoleni a S. Cruz in Bolivia, e il divario che il suo centro sta riducendo.
Mario Mazzoleni è un volontario italiano che vive e lavora a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia ed è direttore del Centro di Reintegracion Fortaleza, un carcere minorile, ma dire carcere non rende l’idea di cos’è questo centro. Infatti non ci sono sbarre, celle, soltanto una grande casa, alla periferia di questa città della Bolivia, 2 milioni di abitanti, la seconda per importanza dopo La Paz, la capitale. In questo centro, dove nessuno può uscire senza permesso e senza essere accompagnati dagli educatori, pena il ritorno nel vero carcere minorile della città, ci sono passati 1056 ragazzi dal 2004 e, attenzione!, i casi di recidiva non superano il 5%. Il che vuol dire che il centro funziona come vero centro di reintegrazione sociale, ultima possibilità per questi ragazzi nati in famiglie sbagliate, vissuti in contesti sbagliati. “E’ solo questa la differenza”, ci dice Mario: “dimmi dove nasci in Bolivia e ti dico che percentuale hai di intraprendere strade pericolose”. La storia di Mario è da manuale, sceneggiatura perfetta per un film. Mario è bergamasco, capomastro, coordina squadre di maestranze edili in cantieri internazionali: dal Vaticano all’Asia. Lavora per una grossa ditta di costruzioni e a Mosca conosce la sua futura moglie, boliviana. Si frequentano, si piacciono, decidono di sposarsi e di vivere insieme in Bolivia a Santa Cruz, la terra d’origine di sua moglie. Mario vuole continuare la sua attività in Bolivia, ma S. Cruz è anche terra di forte impegno missionario bergamasco: il vescovo è mons. Sergio Gualberti, ex prete operaio, fidei donum. Ci sono molti preti missionari di Bergamo a Santa Cruz. Mario incontra mons. Gualberti che gli propone di occuparsi del Centro di Reintegracion: da muratore Mario diventa educatore e poco dopo direttore della struttura. Da muratore a relatore in convegni con tema la reintegrazione sociale dei minori problematici. Il centro lavora con minori dai 14 ai 18 anni e, dice Maerio ”non è una misura alternativa al carcere ma una misura differente, dove non c’è polizia, e dove mettiamo in atto modelli educativi per integrare i giovani nella società di modo che possano esprimere i valori positivi che hanno. Modelli educativi basati sull’amore, la responsabilità, sul prendersi cura, la vicinanza: tutte cose che questi giovani purtroppo non hanno mai avuto la possibilità di sperimentare nella loro vita”.
Nei nostri programmi, continua Mario, “prendiamo i ragazzi singolarmente, per ognuno c’è un intervento individuale, un programma di accompagnamento secondo il tempo che da il giudice di permanenza nel centro. Durante questo tempo il ragazzo va a scuola, impara un lavoro, abbiamo corsi di falegnameria, informatica, meccanica, ma soprattutto ricostruiamo valori che hanno perso o non hanno mai avuto, come la famiglia, il valore della persona, l’autostima”. Sono ragazzi di famiglie distrutte quelli che arrivano al Centro de Reintegracion, ragazzi che hanno sofferto abbandoni, solitudini e che sono scesi nel degrado, che hanno già una storia di criminalità, di furti, di appartenenza a bande, e quindi che sono già passati da tribunali e da sentenze. Vista la loro giovane età, sono ad un bivio: o passano il resto della loro vita di carcere in carcere, di pena in pena, oppure si tenta l’ultima alternativa, l’ultima spiaggia, rappresentata dal Centro di Reintegracion. Che sta funzionando! “Puntiamo sulla responsabilizzazione e sulla coscientizzazione dei ragazzi. Qui è permesso sbagliare”, dice Mario. “Anche lo sbaglio, la caduta, fa parte del percorso di recupero. La voglia di lasciare questo centro in certo momenti fa parte del percorso. E’ meno impegnativo prendere una pistola e rapinare un supermercato che non alzarsi alle 4 del mattino per lavorare e portare a casa qualche dollaro onesto al giorno. Ma non funziona così”… Ho cambiato edifici da costruire, dice Mario: “Prima costruivo case, adesso ricostruisco giovani! E’ quella forbice da ridurre tra noi che siamo vissuti in famiglie giuste, in contesti sani, e questi ragazzi che sono nati in contesti sbagliati, in famiglie disgraziate. Siamo chiamati a dare a loro possibilità, a ridurre quel divario che ci impedisce di creare una società più giusta.”