Il lavoro di Caritas Madre de Dios in Perù
Non è facile per un campesino o per un indigeno della regione del Madre de Dios nell’Amazzonia peruviana scegliere di che vivere: se coltivare la terra o principalmente dedicarsi all’attività estrattiva dell’oro. Facciamo un passo indietro: Madre de Dios è la parte sud est dell’Amazzonia peruviana che confina con Brasile e Bolivia, la parte di selva nella quale degrada la sierra di Cuzco e Puno. Madre de Dios, il grande fiume che nasce sotto le costruzioni inca di Cuzco nemmeno dopo 300 chilometri è già diventato un grande fiume amazzonico, delimita confini, è una importante via di navigazione, viene chiamato Madeira quando entra in Brasile per poi ingrossare, dopo giorni, altri fiumi ed entrare il quel mare che è il Rio delle Amazzoni vicino a Manaus. La regione Madre de Dios si chiama così -Madre di Dio- perché è la madre di tutte le ricchezze naturali che si possano immaginare. Tra queste l’oro, che si trova dragando i fondali del fiume o nelle terre circostanti togliendo gli alberi e mezzo metro di radici e humus per arrivare al terreno argilloso che altrimenti sarebbe la foresta. Tutti, se vogliono, possono trasformarsi in mineros, ovvero avviare l’attività estrattiva: dal campesino munito di setaccio, zappa e badile fino alle grandi imprese munite di pompe che tirano l’acqua facendola passare con un giro di tubi nei setacci da dove si ricava l’oro. Se si pensa che lo stipendio mensile di un campesino nella sierra cuzqueña più essere di 700 soles peruviane (nemmeno 200 euro) quando il raccolto va bene, e il prezzo pagato al grammo di oro è di 120 soles – e per ricavarlo un campesino senza tanta attrezzatura ci impiega poche ore- si capisce di quali dimensioni sia la corsa all’oro nella regione del Madre de Dios, che ha assunto dimensioni impressionanti dieci anni fa.
Tutti si trasformano in mineros: comunità indigene e campesinos, ma soprattutto nel Madre de Dios arrivano migliaia di lavoratori stagionali nel periodo della secca, da maggio a novembre, quando il fiume, abbassandosi anche di 15 metri, lascia ampie rive, i fondali sono più raggiungibili, la corrente meno impetuosa. Le conseguenze sono devastanti, per due motivi. Il primo: l’estrazione dell’oro è chiamata “oro hoy, hambre mañana”, soldi oggi, fame domani. L’attività estrattiva fatta sul fiume devasta le rive creando insenature dove le correnti corrodono mangiandosi territorio e aumentando le zone alluvionate, fatta “nel monte” lontano dal fiume, togliendo il mezzo metro di terreno fertile e la foresta che ci sta sopra, genera deserti in quella che fino a 10 anni fa era foresta. A 30 km da Puerto Maldonado, capitale della regione, adagiata sul fiume, c’è la zona chiamata Pampa dove questo deserto è impressionante e si estende per decine e decine di chilometri. Il secondo motivo è ancora più grave: come fa il minero, piccolo o grande che sia, a coagulare l’oro distinguendolo dall’acqua e dall’altro materiale di risulta nel quale è presente? Lo fa con l’utilizzo di mercurio, che poi viene inevitabilmente gettato nel fiume o nel terreno innescando gravissimi problemi di inquinamento. Alcuni pesci come la comunissima Mota punteada sono banditi dalle tavole, ed era un pesce importante per l’alimentazione della gente.
Le conseguenze dell’inquinamento da mercurio soprattutto su donne e bambini sono già oggetto di studi inconfutabili. Questo tipo di estrazione è illegale ma nel periodo di secca è la più importante attività economica a Puerto Maldonado: 40 tonnellate di oro è il giro d’affari stagionale per la città. Piccole comunità -quattro case lungo il fiume- si sono trasformate in paesotti di emigranti e commercianti che vivono di questi traffici: dalle ferramenta che vendono pompe e tubi per gestire il flusso di acqua ai distributori di benzina in fusti, dai venditori di mercurio fino ai mille baracchini di compro oro dove tutti portano il frutto della giornata. Oltre al resto, ovviamente: giro di prostituzione, squallidi hotel, baretti improvvisati e in questi ragazze che arrivano attratte dal lavoro redditizio, sfruttate in mille modi. Chi si oppone viene sistemato. Come Alfredo Vracko, ucciso nel 2016. Alfredo era un maderero, aveva una segheria di legname e una concessione del governo per il taglio e la riforestazione. Tutto regolare, perché non c’è solo l’illegalità nell’Amazzonia. Ha denunciato lo scempio della Pampa, la distruzione di migliaia di ettari di foresta ad opera delle compagnie minerarie. Aveva denunciato anche le autorità competenti che si girano dall’altra parte, non volendo vedere. L’hanno ucciso con un colpo di pistola. Il sicario ha lasciato la zona e Freddy, il figlio di Alfredo, insiste perché le autorità trovino i mandanti e non solo il poveraccio che l’ha ucciso per quattro soldi. La chiesa cattolica si oppone con decisione al saccheggio dell’Amazzonia.
La Caritas Madre de Dios, presieduta dal giovane vescovo di Puerto Maldonado, il domenicano David Martinez de Aguirre e diretta da Juan Carlos Nava ha costituito un’equipe di tecnici, avvocati, agronomi, biologi per trovare soluzioni alternative. Ci stanno riuscendo, supportati da ONG e Caritas di Stati Uniti ed Europa. Aiutano i contadini a ripensare il loro lavoro: è nata per questo la cooperativa Approcci che si occupa soprattutto del cacao, la cooperativa nella comunità indigena Arazaire, che si occupa del cupuaçù, la cooperativa di contadini El progreso, formata da 20 famiglie scese da Cuzco, che si occupa di ananas e papaya. “Il lavoro di fondo è intercettare il disagio delle comunità indigene e delle comunità di campesinos”, afferma Juan Carlos Nava, direttore di Caritas: “Sono i primi a sapere che il lavoro dell’estrazione dell’oro ti risolve i problemi oggi, ma ti porta ad emigrare domani. E quindi sono i primi disponibili a seguire percorsi per una agricoltura sostenibile e che dia buoni frutti in Amazzonia oggi e domani”. E’ il modello agroforestale, dice Manoel Ghisbo, l’ agronomo di Caritas. “Si tratta di rendere l’Amazzonia redditizia dal punto agricolo e forestale per le esigenze della vita di oggi, che non sono quelle delle comunità indigene di 50 anni fa. Per le esigenze di una comunità indigena tradizionale quello che offre l’Amazzonia senza nessuno sforzo da parte dell’uomo è ampiamente sovrabbondante: pesci, frutta di ogni tipo, verdure, carne, medicinali naturali. Ma il mondo nativo di un tempo non prevedeva di mandare i figli all’università a Cuzco, di fare esami medici in strutture sanitarie, di usare computer, smartphone, web, di commercializzare la polpa di cupuçù o il cacao. Oggi queste esigenze ci sono anche per le popolazioni dell’Amazzonia e bisogna soddisfarle se non si vuole che l’Amazzonia si spopoli e diventi solo luogo di lavoro stagionale per milioni di lavoratori in occasione della raccolta della castagna o dell’estrazione dell’oro in tempo di secca del fiume”. Per questo Caritas ha ideato i Plan de Vida, che assieme ad una agricoltura sostenibile si occupa di sviluppo sociale, educativo, sanitario. Lo sviluppo di una agricoltura sostenibile in Amazzonia vuol dire tagliare la foresta seguendo piani precisi di taglio e di riforestazione. Le leggi ci sono! E nelle zone di taglio controllato, sotto l’ombra indispensabile delle piante rimaste, sviluppare un’agricoltura diversificata: ananas, cacao, cupuacù, papaya, limoni, arance… “L’agricoltura in Amazzonia sarebbe attaccata da parassiti che mangerebbero il raccolto in pochi giorni”, continua Manoel Ghisbo. “Ecco quindi l’importanza di piante naturalmente presenti hanno lo scopo di attirare i parassiti e annullare il loro effetto sulle piantagioni. Tutte procedure ben conosciute dalle comunità indigene, che però se portate su scala più ampia hanno bisogno di regolazioni e tecniche particolari. A chi saccheggia la foresta con il taglio indiscriminato di legname non interessano queste cose. Così pure a chi toglie la foresta per piantare soia: risolvono i problemi dei parassiti inondando di veleno”. “E’ inutile dire a certe comunità di abbandonare l’attività estrattiva”, dice Laura Ramirez, biologa “perché rappresenta per loro una fonte di guadagno indispensabile. Quello che facciamo come Caritas va in tre direzioni, e lo mettiamo in pratica con la cooperativa Fortuna Milagrito. La prima direzione è farsi approvare un piano estrattivo dal governo, con la mappatura dei luoghi e la gestione del materiale di risulta. Seconda, procedere per selezioni successive della sabbia del fiume o del monte, così che il materiale di risulta, che desertifica la foresta, è inferiore anche del 70% rispetto a quello dell’estrazione illegale. Terza e più importante, non usare il mercurio per coagulare l’oro ma sistemi gravimetrici di deposito: decisamente più complessoi, ma che non recano alcun danno alla natura. I campesinos ci chiedono di andare in questa direzione perché loro sono i primi ad essere contaminati dal mercurio e a subirne le conseguenze”. “Certo, siamo minacciati per il lavoro che facciamo”, dice Toribio Castro, “perché ogni giorno con il nostro lavoro diciamo che l’illegalità e il saccheggio non è l’unico modo di vivere l’Amazzonia. E quindi a chi nell’illegalità ci sguazza il nostro lavoro da fastidio. Vedere camion che portano fuori piante secolari pagando gli indios con una cassa di birra, con le autorità che si girano dall’altra parte, deve diventare inaccettabile. Ma perché succeda, si deve formare il contesto”. La stessa cosa vale per la tratta, ci racconta Carol Ieri, avvocato di Caritas, che segue decine di casi. “La tratta è difficile da gestire e soprattutto da individuare, perché si annida in situazioni ambigue. Convincere la ragazza scesa dalla sierra in cerca di lavoro e finita come cameriera dai mille servizi in uno squallido bar della Pampa e che guadagna in una settimana quello che suo padre campesino guadagna in un mese, è complicato. I soldi che prende le danno i brividi, non le fanno capire la schiavitù nella quale è caduta. O meglio, la capirà più tardi, quando oramai è distrutta o ha visto cose, persone, situazioni che non doveva vedere. E la vita, da queste parti, vale niente”.