Dal Villaggio per la Terra l’appello di Survival in difesa dei popoli indigeni dell’Amazzonia
“Sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale, esse si prendono cura di quasi il 22% della superficie terrestre. Vivendo in aree quali l’Amazzonia e l’Artico, aiutano a proteggere circa l’80% della biodiversità del pianeta.”
Con queste parole pronunciate a inizio marzo, papa Francesco è tornato sul tema delle popolazioni indigene, le culture tradizionali che in diversi continenti hanno avuto successo nell’integrare (o meglio: nel mantenere integrata) la società umana con l’ambiente naturale. Il Pontefice, andando addirittura oltre le sensibilità e i principi di molte associazioni ambientaliste, ha compreso (e dichiarato) che i migliori custodi della “casa comune”, ovvero del pianeta che tutti condividiamo, sono proprio quelli che per secoli sono stati considerati, nel migliore dei casi, popoli arretrati, da aiutare, educare, reintegrare nella modernità. Con l’ecosistema terrestre in pericolo, con la Scienza che continua a lanciare allarmi su un punto di non ritorno climatico a cui ci avviciniamo inesorabilmente, il Papa non solo ha condiviso le posizioni dell’UNESCO per cui “le popolazioni indigene sono custodi e specialisti di culture e relazioni uniche con l’ambiente naturale”, ma ha chiuso il cerchio tra scienza, questione sociale e spiritualità chiosando che “in un mondo fortemente secolarizzato, tali popolazioni ricordano a tutti la sacralità della nostra terra. Per questi motivi, la loro voce e le loro preoccupazioni dovrebbero essere al centro dell’attuazione dell’Agenda 2030 e al centro della ricerca di nuove strade per un futuro sostenibile.”
L’orizzonte di questo discorso è il Sinodo dei Vescovi “speciale per la regione Panamazzonica” in programma ad ottobre in Sudamerica, dal titolo “Amazzonia: Nuovi Cammini per la Chiesa e per una Ecologia Integrale”, che si propone di affrontare l’evoluzione del rapporto con i popoli indigeni. Si tratta di quasi tre milioni di persone, appartenenti a poco meno di quattrocento popolazioni originarie. Centinaia di popolazioni che vivono all’interno del polmone del pianeta, in un’area di quasi 7 milioni di chilometri quadrati, in gran parte entro i confini del Brasile, ma per il 35% suddivisi anche in altre sette nazioni del continente. A completare il quadro va ricordato che l’UNESCO ha proclamato il 2019 “Anno internazionale delle lingue indigene”, a sottolineare l’importanza di salvaguardare le culture tradizionali. Nella sola Amazzonia si parlano 240 lingue, appartenenti a 49 famiglie linguistiche.
Di questi argomenti si è parlato nel talk “Amazzonia, foresta di culture”, il 27 aprile al Villaggio per la Terra di Roma, convegno organizzato da Earth Day Italia e dal Movimento dei Focolari, insieme al Cortile dei Gentili del Pontificio Consiglio della Cultura, alla Segreteria del Sinodo dei Vescovi, e alla ONG Survival che ha celebrato nell’occasione i 50 anni di attività di supporto ai popoli indigeni. Dalla discussione, che ha visto la partecipazione del cardinale Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi, di missionari, studiosi e testimoni diretti della quotidianità dell’Amazzonia, è emerso che non solo la cultura, ma l’esistenza stessa delle popolazioni originarie sono a rischio in Amazzonia, come in altre aree geografiche del pianeta.
“Davi Yanomami, il grande leader e sciamano di questo popolo brasiliano amazzonico, dice che noi continuiamo a parlare dell’ambiente ma non sappiamo, non ci rendiamo conto, ci dimentichiamo che l’ambiente respira e ha un cuore. Loro dicono: l’ambiente non è qualcosa di separato di noi: noi siamo dentro di lui e lui è dentro di noi. Anzi, noi siamo l’ambiente.”
Queste parole, che riecheggiano il concetto di sacralità espresso da quelle del Papa riportate in precedenza, sono di Francesca Casella, direttrice italiana di Survival International. Quest’organizzazione da voce alle popolazioni indigene del mondo e fa campagne di sensibilizzazione sui diritti negati, i soprusi subiti e le minacce alla loro esistenza. Minacce di diverso tipo: espropri di territori, violenze, assimilazione forzata di popolazioni ancora legate a lingue e tradizioni ancestrali; e sfratti di intere popolazioni dalle loro terre, perpetrate paradossalmente in nome della conservazione integrale degli ecosistemi naturali. Nella pratica insomma, non si considera che le popolazioni originarie sono parte integrante di equilibri naturali millenari, tanto quanto i fiumi, gli alberi e gli animali delle foreste, degli altipiani, dei deserti e delle montagne che restano ancora allo stato naturale. Qui di seguito riportiamo uno stralcio dell’intervista rilasciata da Francesca Casella a margine del talk “Amazzonia, foresta di culture” che approfondisce la questione, sociale e ambientale, posta all’attenzione del mondo in questo 2019 in cui, come detto, l’argomento delle culture indigene ricorrerà in diversi consessi internazionali.
Purtroppo anche gli indigeni sono minacciati come gli altri elementi degli ecosistemi in cui vivono. Quali sono le minacce vecchie e nuove che mettono in pericolo la loro sopravvivenza?
Tra quelle vecchie c’è il ciclico ricorrere delle invasioni illegali, ad esempio dei taglialegna e dei minatori, che molto spesso introducono violenze e malattie. C’è poi l’espandersi delle prospezioni di petrolio e di gas all’interno dei loro territori, che un tempo erano un po’ più protetti dall’inaccessibilità di quelle aree. Poi ci sono minacce tutte nuove: ad esempio le misure di mitigazione che ci siamo dati per cercare di controllare i cambiamenti climatici. Tra queste il ritorno delle grandi dighe. Negli anni 2000 anche la Banca Mondiale aveva detto che non ne avrebbe più finanziate a causa del devastante impatto, sociale e ambientale, che stavano avendo ovunque. Oggi però sono ritornate in auge. Purtroppo non sono cambiate le dinamiche e le tecniche di costruzione, quindi continuano ad essere dei progetti devastanti. Ci sono anche le piantagioni per i biocarburanti, soprattutto di canna da zucchero, che si stanno espandendo all’interno delle terre indigene, derubando questi popoli dei loro territori e delle loro risorse. Sono monoculture devastanti, anche dal punto di vista ambientale, che comportano sfratti di massa che finiscono con l’impoverire e minacciare la stessa esistenza dei popoli indigeni. Infine c’è la minaccia forse meno conosciuta di tutte: quella che proviene dal diffondersi di un modello di conservazione della natura di stampo colonialista che parte da un presupposto e da un pregiudizio: ovvero che noi sappiamo meglio di chiunque altro, meglio degli stessi popoli che abitano quelle terre, come prenderci cura dei territori. E’ una contraddizione: perché non è un caso se i popoli indigeni oggi abitano le terre a maggiore biodiversità del pianeta. Non solo hanno protetto quei territori, ma hanno anche contribuito direttamente a plasmarli ad arricchirne la biodiversità attraverso sofisticatissime e antichissime tecniche di sostentamento che non compromettono il perpetuarsi ciclico delle risorse. E’ paradossale che, una volta che ci siamo resi conto della preziosità di questi territori e decidiamo di convertirli in parchi nazionali, immediatamente questi popoli vengano sfrattati, e perdano dall’oggi al domani la possibilità di continuare a sostentarsi all’interno di quei territori, come hanno sempre fatto prima.
Dove sta succedendo?
In varie parti del mondo. In questo momento particolare le situazioni di crisi più gravi ci sono nell’Africa centrale (Camerun, Repubblica Centrafricana e Congo) dove decine e decine di popoli: pigmei, baka, bayaka e tanti altri, stanno non soltanto subendo lo sfratto illegale dalle loro terre, ma cadono anche vittime di persecuzioni gravissime da parte dei guardaparchi armati pesantemente. Subiscono addirittura torture e, in alcuni casi, uccisioni dirette. Un’altra situazione di crisi molto seria è in India, dove il Governo ha recentemente ordinato, entro il prossimo 27 luglio, lo sfratto di otto milioni di persone appartenenti ai popoli indigeni. Una situazione grave, che riguarda in particolare le riserve delle tigri. In alcuni casi i guardaparco hanno addirittura il permesso di sparare a vista, nella totale impunità, a chiunque sia anche solo sospettato di bracconaggio. Negli ultimi anni sono state uccise decine di persone; solo a posteriori si è scoperto che erano indigeni innocenti che con il bracconaggio non avevano proprio nulla a che fare.