Portare aiuti ed essere solidali con chi è in difficoltà non è uguale in ogni parte del mondo. Altro motivo di diseguaglianza tra Paesi e all’interno degli stessi. Vi sono aree del mondo in cui la sicurezza degli operatori umanitari è estremamente bassa. Secondo i dati ultimamente resi pubblici, l’anno scorso è stato il secondo peggiore dell’ultimo decennio da questo punto di vista, rafforzando un trend preoccupante. Secondo un gruppo di ricercatori (Aid worker security report), infatti ci sono stati 226 attacchi che hanno coinvolto 405 operatori umanitari, di cui 131 sono stati uccisi, 144 feriti e 130 rapiti, solo per citare i dati “noti”, ma è molto probabile che il fenomeno sia abbondantemente sottostimato. Le vittime sono in gran parte uomini, ma le violenze sessuali colpiscono quasi esclusivamente le donne, come è facilmente immaginabile. Nell’8 per cento delle aggressioni contro di loro, c’è stata violenza sessuale, con tutte le inevitabili e tragiche conseguenze. Il Sud Sudan continua ad essere il Paese più insicuro del mondo per gli operatori umanitari (soprattutto alcune aree del Paese), superando la Siria e l’Afghanistan per numero di attacchi, e questo ha messo a rischio anche gli interventi contro l’ebola nella Repubblica Democratica del Congo e molti altri progetti, essenziali per tali contesti.
In questo senso vi è una responsabilità di proteggere anche gli operatori umanitari, senza i quali non è possibile portare gli aiuti alle popolazioni stremate dalle guerre, dalla fame e da ogni sorta di “fattore causale” che rende questo mondo sempre più ingiusto e diseguale.
La Responsabilità di proteggere (Responsibility to Protect-R2P) è un impegno politico globale che è stato sottoscritto da tutti i Membri delle Nazioni unite nel World Summit del 2005. Il suo scopo è quello di assicurare una risposta adeguata principalmente a quattro problemi centrali, quali il genocidio, i crimini di guerra, la pulizia etnica e i crimini contro l’umanità.
Il principio si basa sulla premessa che il principio di sovranità implica la responsabilità di proteggere tutta la popolazione dalle violazioni dei diritti umani e le atrocità, e incorpora norme e principi del Diritto internazionale relativi a pace e sicurezza, diritti umani e regole dei conflitti armati. In questo senso, fornisce un quadro giuridico-politico a misure già previste dalla Carta delle Nazioni Unite e altri trattati e patti internazionali, quali mediazione, deterrenza, sanzioni, operazioni di peacekeeping e di “imposizione” della pace. Le azioni che implichino l’uso della forza, considerate come estrema risorsa, sono comunque affidate alla decisione e responsabilità del Consiglio di sicurezza.
La R2P si articola in tre “pilastri”, descritti nei paragrafi 138 e 139 del World Summit Document del 2005:
- Le responsabilità di protezione dello Stato;
- L’assistenza internazionale e il capacity-building;
- Una risposta tempestiva e decisiva.
Il primo pilastro afferma che ogni Stato ha individualmente la responsabilità di proteggere la propria popolazione dal genocidio, i crimini di guerra, la pulizia etnica e i crimini contro l’umanità.
Il secondo pilastro assegna alla Comunità internazionale l’obbligo di fornire l’assistenza necessaria ad uno stato che voglia assistere i propri cittadini, ma non ne abbia la capacità o la possibilità tecnica, senza il supporto internazionale.
Il terzo pilastro impone la tempestività della decisione e dell’azione internazionale per assicurare la protezione della popolazione a rischio, qualora lo Stato sovrano responsabile voglia sottrarsi a questa responsabilità o, addirittura, costituisca esso stesso una minaccia per la sicurezza dei propri cittadini. Cosa che non capita raramente.
In sostanza, qualora uno Stato non voglia o non sia in condizione di esercitare la propria responsabilità di proteggere, questa responsabilità passa automaticamente alla Comunità internazionale, che ha l’obbligo di esercitarla in tutti i modi, incluso – come extrema ratio – l’uso della forza.
I rapporti sull’R2P, pubblicati dal Segretario generale a partire dal 2009, hanno espanso la definizione delle misure a disposizione di governi, organizzazioni intergovernative, società civile e settore privato per prevenire crimini di guerra e atrocità di massa. Questo ha fornito un robusto quadro di riferimento per l’affermazione di un obbligo collettivo che supera i limiti della sovranità per trasformarsi in principio di responsabilità globale.
In pratica, la R2P è stata utilizzata come base della decisione del Consiglio di sicurezza in sole due occasioni: l’invio della missione di peacekeeping UNAMID in Darfur (Sudan 2007) e l’operazione NATO “Unified Protector” in Libia nel 2011. Il principio è stato poi invocato in diverse altre occasioni: in occasione della crisi di diritti umani in Kenya nel 2007-2008, per il Colpo di stato in Costa d’Avorio nel 2011, per il genocidio in Repubblica Centroafricana nel 2013, per la guerra civile in Siria, per la guerra in Yemen e a proposito del tentativo di genocidio in Burundi.
Nel caso della Guerra civile siriana, i governi russo e cinese hanno opposto il veto, argomentando che il principio verrebbe utilizzato dagli Stati Uniti come pretesto per promuovere un “cambio di regime” nel paese.
Tra i motivi di debolezza dell’R2P, viene ripetutamente citato l’interesse precipuo di alcuni Stati membri ad intervenire in un altro paese, per finalità diverse da quelle umanitarie, il problema dell’incoerenza, laddove la Comunità internazionale mancasse di intervenire in tutte le situazioni in cui il principio potrebbe essere applicato, oltre ad altri aspetti.
Di fatto si assiste ad un blocco, una sorta di inerzia della comunità internazionale nello sviluppo concettuale e operativo di un principio che andrebbe regolamentato e soprattutto applicato a tutela e a protezione dei più deboli e di coloro che prestano loro soccorso. Altre diseguaglianze.