Le urgenze ambientali e sociali sono riconosciute e dichiarate da sempre più istituzioni (nonostante ciò si continua a condurre la vita senza scelte radicali di cambiamento). Come più volte si è affermato le crisi sono interconnesse. La crisi è unica, è di un sistema economico -finanziario che ha conseguenze nefaste per l’uomo e l’ambiente. Occorre cambiare. Giovani, organizzazioni sociali e ambientaliste, imprese e finanza consapevole che chiede una economia circolare, diversi politici, spingono per la trasformazione dei modelli di produzione e consumo. Ma i cambiamenti sono lenti, insufficienti e rischiano di creare nuove e inattese (ma prevedibili) resistenze sociali, come vedremo tra breve.
Siccome la crisi è unica ci vuole coerenza tra le sue diverse dimensioni. Non si può cercare di risolvere un problema ambientale senza agire a livello economico, un problema economico senza agire a livello sociale. Se tutto è legato occorre cambiare il sistema nei suoi nodi. Molte organizzazioni presentano agende di azioni, cercando di favorire una coerenza delle politiche per lo sviluppo sostenibile. Le istituzioni assumono nuovi orizzonti. Ora è tempo del New green deal.
Ma ci sono nodi, dilemmi, difficile da sciogliere: salvare vite umane causate dalle guerre o mantenere l’occupazione per la produzione di armi? Difendere il lavoro o chiudere stabilimenti che causano grandi danni ambientali e sulla salute della collettività? Per cambiare non basta assumere nuovi stili di vita, senza essere consapevoli che questi nuovi stili comportano costi sociali di transizione, trasformazione, ristrutturazione, cambiamento dei modelli produttivi di interi settori industriali e agricoli.
Così come è importante essere consapevoli che questi stili e i nuovi modelli di produzione e consumo non sono alla portata di tutti. Mangiare biologico, guidare un’auto elettrica, acquistare una casa efficiente energeticamente, vestirsi con abiti certificati per l’uso di materiali sostenibili, creano nuove esclusioni che si abbattono molte volte su chi è già ai margini della società. Sono i nuovi poveri verdi, i lavoratori poveri, gli scarti, la classe a basso reddito che fa la spesa nei supermercati low cost, vive in case e condomini fatiscenti nella periferia, guida auto usate che bruciano benzina ed olio. Classi che non riescono ad accedere agli incentivi verdi e che sono colpiti anche dalle nuove tasse su chi inquina. I gilet gialli, le contestazioni in Francia e recentemente anche in altri paesi, ne sono una prova. Un bell’articolo apparso su The Guardian illustra la settimana di un lavoratore povero che non riesce a condurre uno stile di vita sostenibile (https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2019/jul/29/eco-friendly-going-green-poor-cost-diary). E questa è la stessa classe a cui si rivolge Trump quando contesta la politica ambientalista (https://www.foxnews.com/politics/trump-green-new-deal-crush-poor-americans-environmental-record).
La trasformazione per uno sviluppo sostenibile rischia quindi, paradossalmente, di creare nuova disoccupazione, di generare nuove esclusioni e di aumentare le disuguaglianze. E di nutrire nuovi anticorpi, nuove resistenze sociali, che la rallentano e la rendono meno urgente. Resistenze che uniscono gli imprenditori inquinanti, gli interessi a mantenere modelli energifori, con i lavoratori poveri. Questi ultimi ostaggio dei primi. Purtroppo ci sono poche risposte concrete nel breve termine per creare alternative dignitose a chi viene espulso dalle industrie inquinanti e per chi non riesce ad accedere ai nuovi green jobs, a migliori stili di vita e modelli di consumo più sostenibili.
E’ una questione spazio-temporale. Temporale perché, nel breve termine, se si va piano nella trasformazione, vi sono meno costi occupazionali, più tempo per ristrutturare il sistema, ma più costi ambientali (e sociali, ad esempio sulla salute, per la collettività); se si va veloci si riducono i costi ambientali ma aumentano quelli occupazionali e i rischi di nuove disuguaglianze.
E’ una questione spaziale. Tra territori e paesi, più ricchi ed innovativi, capaci di trasformarsi assorbendo i costi del cambiamento, e territori e paesi più poveri e sfruttati che non sono in grado di farlo. Le disuguaglianze spaziali possono quindi aumentare con la transizione verso nuovi modelli produttivi e di consumo sostenibili. Ci sono poi degli spill over, dei traboccamenti: i paesi capaci, che creano economia circolare, possono farlo anche perché fanno sopportare ad altri i costi del cambiamento: le produzioni inquinanti, lo sfruttamento incontrollato, così come i rifiuti sono delocalizzati nei paesi pattumiera. Dal nord al sud. La nostra opportunità di trasformazione la facciamo pagare ad altri.
La trasformazione pone quindi un grande problema di distribuzione dei suoi costi e dei benefici, di consenso sociale, di democrazia, e mostra l’esigenza impellente di stabilire una nuova politica di prevenzione e redistribuzione per far fronte ai rischi di accentuazione delle disuguaglianze.
E’ una questione di giustizia fiscale e finanziaria. Ci vogliono nuove compensazioni, sussidi e incentivi, e disponibilità finanziarie per chi rischia di essere escluso: chi inquina paga ma chi paga i lavoratori espulsi dalle industrie inquinanti? Inoltre, chi ha debito, paesi e classi sociali, non riesce ad affrontare i costi del cambiamento.
Esiste il principio di responsabilità comuni ma differenziate, per cui sono i paesi e i settori che hanno più responsabilità nell’aver causato il cambiamento climatico che devono maggiormente impegnarsi nel ristrutturarsi, mentre i paesi e i settori con minori responsabilità possono trasformarsi in modo più graduale. Questo principio è però stato scarsamente messo in pratica. Anche perché i paesi e settori più responsabili dei danni usano il ricatto occupazionale (ed elettorale) per rallentare il processo di ristrutturazione, in modo da portare a casa i profitti di investimenti già realizzati. Questo alibi deve essere affrontato con misure che lo svelino, dimostrando che con politiche giuste è possibile cambiare.
Ecco allora che si parla sempre di più di transizione giusta, di una transizione cioè che tenga conto dei suoi costi e della necessità di mettere in campo politiche di copertura e accompagnamento. La transizione deve essere fondata sulla giustizia sociale. La transizione giusta è una politica indispensabile per consentire un cambiamento urgente. Il mercato da solo non è in grado di farvi fronte, anzi, se ne è sempre disinteressato. Non anticipa e non internalizza i costi ambientali e sociali.
Il ruolo dello stato e della cooperazione internazionale per misure di facilitazione della trasformazione e redistribuzione dei costi e dei benefici è imprescindibile. Movimenti sociali ed ambientalisti, i sindacati, hanno chiesto agli stati di assumere responsabilità in questo senso. L’Organizzazione internazionale per il lavoro ha elaborato e sostenuto l’esigenza di impostare una transizione giusta. L’accordo di Parigi sul cambiamento climatico ne tiene conto. Sono stati indicati dei principi procedurali che sono: individuare le comunità, le classi, i gruppi sociali in via di espulsione ed esclusi dall’accesso ai nuovi stili di vita; non lasciarli fuori e sostenere la loro capacità di accedere al cambiamento; dare loro voce per il dialogo sociale e democratico, evitando le strumentalizzazioni degli interessi imprenditoriali; applicare misure di protezione sociale, formazione e pre-pensionamento; creare fondi per la transizione; prevenire i processi di ristrutturazione, con tempi e luoghi per i ricollocamenti; favorire e accompagnare verso nuovi lavori dignitosi nei settori verdi.
In questa direzione il parlamento europeo ha chiesto l’istituzione di un fondo per la transizione giusta di oltre 4 miliardi di euro, mirato ai territori legati all’economia del carbone. Ma questo non basta. Per fare di più è necessaria una mobilitazione più forte, e mettere al centro i diritti di chi rischia di venire escluso dalla transizione. Occorre migliorare il processo democratico.
Infatti, gli Stati non sono separati dal mercato, e dagli interessi dei più forti. I gruppi di pressione, le collusioni e la corruzione, sono pratiche quotidiane che influenzano l’agenda politica e la sua attuazione. La democrazia è sbilanciata verso chi conta di più, chi sa organizzare e garantire il consenso. Per dare una parvenza di democrazia si organizzano tavoli cosiddetti multi-stakeholder, dove i portatori di interessi si siedono assieme per dialogare e trovare compromessi per il cambiamento. I portatori di interessi che hanno più risorse e capacità, sono quelli che influenzano di più il processo decisionale. Solitamente quelli che hanno più risorse e capacità sono quelli più strutturati e che stanno guadagnando di più nel sistema: le grandi lobby finanziarie ed economiche. Mentre i più deboli riescono a partecipare poco e male, e molte volte sono frammentati e poco efficaci. A loro non resta che cercare di organizzare la resistenza a livello locale nei tanti luoghi di conflitto sociale e ambientale, dalla terra dei fuochi alla foresta amazzonica. Ma intanto i giochi si fanno sulle loro teste, e di nascosto.
Per la transizione giusta è importante passare dalla democrazia multi (che in realtà poi sono pochi) stakeholder, a quella dei cosiddetti rights holders. Sono i portatori dei diritti, dei diritti delle comunità e delle collettività, che dovrebbero avere prevalenza, ed addirittura essere sostenuti dalle istituzioni nella loro capacità di organizzazione. Per questo ci vuole orecchio. L’agenda 2030 sugli obiettivi dello sviluppo sostenibile è fondata sul principio etico del non lasciare indietro nessuno. La transizione giusta pone al centro proprio questo principio. E’ l’opzione preferenziale per i più poveri della dottrina sociale della Chiesa. E’ il grido dei poveri e della terra che guida l’enciclica Laudato Sì di Papa Francesco.
Se non si parte dall’ascolto non si arriva da nessuna parte. E soprattutto non si creano le condizioni per un vero cambiamento equo e sostenibile. Le istituzioni democratiche se vogliono essere tali devono ascoltare e sostenere la voce degli ultimi, di chi è marginale nel dibattito, nei media, negli organismi di consultazione, Ascoltare, veramente, chi è escluso o espulso da una transizione che deve accompagnare il New green deal con piani e fondi per la transizione giusta. Ci vuole orecchio.