Sostenere che l’Italia sia un Paese sempre più vecchio non fa neanche più notizia, la speranza di vita alla nascita delle donne oggi è di circa 85 anni, mentre quella degli uomini è di circa 81. Purtroppo però non è tutto oro quello che luccica. Se è vero che da noi si vive più a lungo che in altri Paesi è anche vero che la vita non viene vissuta tutta in buona salute. Al momento della nascita ogni Italiano ha una speranza di vita in buona salute di 58,2 anni, mentre dopo i 65 anni questa è di 13,7 anni per gli uomini e 14,1 per le donne. Questo dato attesta il nostro Paese al di sotto della media europea: da noi si vive di più, ma anche in peggiori condizioni di salute.

A complicare il quadro, poco rassicuranti previsioni demografiche: in Italia, nel 2030, saranno ben cinque milioni gli anziani disabili da assistere. Nel 2050 per ogni 100 lavoratori saranno 63 gli anziani che avranno bisogno di sostegno. Attualmente il rapporto è quasi la metà. Infine, il dato sulla denatalità fuga qualunque dubbio circa la necessità di un intervento, di ampio respiro e lunga durata, su questo specifico target della popolazione.

Fino ad oggi il sistema di welfare nazionale ha risposto a questa vera e propria emergenza con strumenti prevalentemente di tipo economico: indennità di accompagnamento, voucher, assegni di cura, buoni sociosanitari. A queste misure si associano i servizi di assistenza domiciliare e l’assistenza domiciliare integrata. Purtroppo però quest’ultimi sono ancora insufficienti, frammentati e disorganizzati. Non stupisce, dunque, che la risposta delle famiglie sia un welfare-bricolage, composto da una disorganizzata commistione tra risorse pubbliche e private, come ad esempio le badanti. Per i meglio organizzati e fortunati al puzzle possono aggiungersi anche prestazioni pagate con le assicurazioni, mutue o con strumenti di welfare aziendale. A ben vedere, il tratto distintivo del sistema Italia sembra essere la disorganizzazione e la frammentazione delle risposte. È tempo di ripensare il nostro welfare, sia dal punto di vista dei servizi sia dal punto di vista della governance.

Secondo molti studiosi, come ad esempio Laura Crescentini, Franca Maino, Tiziano Tafaro, sarebbe necessario un approccio multidimensionale integrato, basato sull’individuazione di percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali personalizzati. A tal fine vengono individuati due strumenti: il Piano di Assistenza Personalizzato (PAP) e il Care Managment Team (CMT). Il PAP consiste in un prodotto “flessibile e modulabile in relazione alla situazione clinica, economica, familiare del soggetto interessato, nonché al relativo contesto territoriale, con particolare riferimento alle possibilità di assistenza sociosanitaria offerte prevalentemente dal pubblico, ma anche tramite il ricorso al privato” [cfr. Laura Crescentini, Franca Maino, Tiziano Tafaro, Non autosufficienza: analisi e proposte per un nuovo modello di tutela, Secondowelfare.it, 2019]. Il PAP viene realizzato e implementato dal CMT, un gruppo professionale e terzo, che offre consulenza e accompagnamento, organizza praticamente il PAP e monitora l’efficacia della strategia messa in atto.

A nostro avviso, questo approccio non avrebbe nessuna chance se applicato in un contesto istituzionale poco integrato, mal coordinato e sconnesso. Per fare in modo che il PAP e il CMT abbiano successo occorre intervenire anche sulla governance di sistema. Molto interessante da questo punto di vista è il progetto Sportello Unico per la Famiglia (SUF), avviato dalle Acli Nazionali e dal Consorzio Ambito Territoriale Sociale Br 3 di Francavilla Fontana. Lo Sportello Unico per la Famiglia “riunisce e integra i servizi sociali comunali, i servizi di accesso alle prestazioni e alle valutazioni sociali, sanitarie ed educative coinvolgendo una riformata medicina di base, i servizi per l’impiego, gli enti che si occupano di istruzione e formazione (nei casi in cui ci siano figli minori componenti il nucleo familiare)”. Si tratta di costruire una rete effettivamente integrata, in grado di prendere totalmente in carico i cittadini e le loro famiglie. Un modello di sussidiarietà circolare che integri parti dello Stato con la pubblica Amministrazione e questa agli enti non profit e profit, se necessario. Secondo questa impostazione occorre offrire ai cittadini la possibilità concreta di essere effettivamente presi in carico, senza perdere tempo prezioso, evitando inutili viavai tra differenti uffici che non riescono a comunicare, evitando il senso di smarrimento che si prova di fronte ad una pubblica amministrazione che spesso ha le capacità e gli strumenti adatti a soddisfare i bisogni specifici, ma che altrettanto spesso non riesce ad utilizzarli in modo corretto e coordinato. In poche parole, occorre riconoscere concretamente l’accesso ai servizi come il primo Livello Essenziale delle Prestazioni Sociali.

[L’articolo è stato pubblicato anche sul sito delle ACLI a questo indirizzo]

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