La retorica che di solito accompagna le campagne per sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli del cambiamento climatico, sottolinea da sempre che nessun paese può pensare di essere esente dai danni collaterali di un clima mutato. L’effetto serra riguarda tutto il pianeta, a prescindere da chi abbia immesso più o meno CO2 nell’aria; e l’innalzamento dei mari per lo scioglimento dei ghiacci tocca tanto le coste dell’Atlantico, quanto quelle del Pacifico o del Mditerraneo. Perché l’acqua, il vento e i gas climalteranti non conoscono né rispettano i confini.
Di solito questi argomenti, veri peraltro, servono ad avallare il concetto che siamo tutti sulla stessa barca (o nella stessa casa, per usare l’espressione di papa Francesco). Fermare il surriscaldamento globale da cui tutto dipende si può fare soltanto tutti insieme, e ognuno deve fare la sua parte: paesi ricchi e poveri, caldi e freddi, comuni, regioni, multinazionali, aziende e anche famiglie e singole persone; perché i disastri ambientali e climatici non risparmiano i virtuosi per accanirsi sugli ignavi.
“Time for action is now” è lo slogan della COP25 che riunisce in questi giorni a Madrid i delegati degli stati dell’ONU, e centinaia di esperti e attivisti, di associazioni e istituzioni, che portano avanti i negoziati sul clima. Anton Guterres, segretario generale dell’Onu ha detto chiaramente che “Dobbiamo decidere se scegliere la via della resa, lasciando che l’emergenza climatica colpisca a caso chiunque viva su questo pianeta, o la via della speranza, delle soluzioni sostenibili e delle azioni efficaci”.
Anche gli obiettivi delle “azioni efficaci” sono collettivi, globali, condivisi: azzerare le emissioni di CO2 in eccesso entro il 2050; mantenere il riscaldamento medio globale (rispetto ai livelli pre industriali) entro 1,5-2 gradi centigradi entro il 2100 (ma abbiamo già superato il grado in più oggi); diminuire le emissioni di gas serra del 7,6% ogni anno da qui in poi (ma quest’anno sono in realtà aumentate). Perciò, visto che finora si è tergiversato o addirittura si è peggiorata la situazione, “È imperativo – dice Guterres – che i governi non solo onorino gli impegni di riduzione delle emissioni (NDC) presi con l’Accordo di Parigi nel 2015, ma devono decisamente aumentare le loro ambizioni (di riduzione, nda).
In sostanza: occorre agire, fare di più rispetto al previsto e risolvere insieme… o insieme si affonda.
Ma qualcuna affonda prima degli altri. Sta già succedendo. Lorena Aguilar, Ministro dell’Ambiente del Costarica (un paese che lodevolmente prevede di diventare carbon free già nel 2021) in apertura di COP ha dichiarato: “In America Latina il cambiamento climatico è una questione di vita o di morte”. Lo stesso Guterres, aprendo il meeting di Madrid ha sottolineato: “Saranno i più vulnerabili che subiranno prima e più forte l’impatto del cambiamento climatico”. E ancora “La grande ingiustizia della crisi climatica è che i suoi effetti colpiscono di più quelli che ne sono meno responsabili” alludendo ai paesi meno sviluppati (e dunque meno inquinanti) e alle piccole nazioni insulari.
A rirpova di ciò, c’è uno studio sulle migrazioni interne agli stati che Oxfam ha presentato a Madrid. I disastri climatici (non le condizioni economiche o le guerre) sono la prima ragione che spinge le persone ad abbandonare le proprie case e i propri territori d’origine. Negli ultimi dieci anni 20 milioni di persone ogni anno hanno dovuto migrare in seguito a cicloni, incendi e inondazioni. L’80% delle migrazioni di questo tipo sono avvenute in Asia. Per fare un paragone, nello stesso periodo le guerre e i conflitti sociali hanno “dislocato” un terzo delle persone rispetto agli eventi legati al clima. Ci sono poi luoghi del mondo dove i due aspetti (conflitti e disastri) si sommano, come in Somalia e in Guatemala; o come in Etiopia, Somalia, Sud Sudan e Sudan dove nel solo 2018 quasi quattro milioni di persone sono sfuggite alla guerra, e circa un altro milione alle inondazioni. Il rapporto Oxfam sottolinea anche che sette dei dieci paesi più colpiti dal fenomeno delle migrazioni climatiche interne sono i cosiddetti SIDS, piccoli stati insulari in via di sviluppo, come Vanuatu, Tonga, Sri Lanka o Cuba. Angoli di mondo che siamo abituati a immaginare come luoghi di vacanza, lontani dai problemi dell’inquinamento e della civiltà industriale. In realtà pagano con cicloni, mareggiate e innalzamento degli oceani colpe certamente non loro.
La COP 25 è iniziata proponendosi, come detto di forzare tutti i paesi a fissare obiettivi di sviluppo sostenibile più ambiziosi del 2015. Il monito è rivolto soprattutto alle nazioni del G20, prime responsabili del riscaldamento globale. Un altro scopo dichiarato della conferenza è di mettere a punto i meccanismi di finanziamento collettivo alla resilienza dei piccoli stati e di quelli in via di sviluppo, che da soli non possono economicamente, tecnicamente e materialmente permettersi la lotta al cambiamento climatico.
Il concetto insomma è chiaro: per nazioni come Tuvalu, Dominica e Vanuatu, isole e atolli esposti agli oceani e ai venti, “acqua alta” significa veder scomparire gran parte del territorio; e non hanno miliardi di euro o decine di anni da investire in un MOSE. Per loro l’unica alternativa all’arresto del riscaldamento globale è la fuga e la scomparsa dalle carte geografiche.
Insomma c’è una forbice da chiudere anche riguardo ai cambiamenti climatici e alle possibilità delle popolazioni locali di affrontarli: nei paesi sviluppati ci sono tecnologie, professionalità, risorse economiche e finanziarie per reagire ai disastri, tanto che nei sondaggi, ad esempio, i cittadini italiani si dicono ottimisti nel lungo termine. In quelli poveri o geograficamente più esposti, il conto alla rovescia sembra scorrere più rapidamente.