L’ Arsenale della Pace ha cominciato davvero ad aprire le porte agli stranieri negli anni ’80. Non era nei nostri programmi gestire delle accoglienze di questo tipo, ma anche quella volta fu l’imprevisto a cambiare ogni piano. L’imprevisto che prese la forma di un dito puntato, di un giovane nordafricano che nel bel mezzo di un incontro pubblico si alzò, chiese la parola e spiazzando tutti disse a me: “Ehi, Olivero, tu stanotte dove dormi?”. Io non capivo. “Ehi, mi dici dove dormi? Allora, dove dormi stanotte?”. Abbassai lo sguardo, continuando a non capire. “Lo sai che in una città come Torino ci sono appena venti posti per la gente di strada?”. Quella notte, non tornai a casa e decisi di seguire quel ragazzo nella stazione della mia città. Scoprii l’inferno delle prime ondate migratorie.
Per me e i miei amici, quell’incontro fu un appuntamento con Dio. Decidemmo così di ricavare tra i ruderi dell’Arsenale una prima accoglienza, ma all’inizio non fu per niente facile. Avevamo ideali, buona volontà, tante persone pronte a coinvolgersi, ma incontrando gli stranieri che ci chiedevano aiuto, ci siamo resi conto molto presto che tutto questo non bastava. Ne parlai così con i miei amici, asciugando le loro lacrime e anche la loro frustrazione legata alla fatica di entrare in una relazione vera con i nostri ospiti. Mi presi del tempo per capire e decisi di andare nei paesi di origine degli uomini e donne che avevamo iniziato ad accogliere. L’incontro con alcuni testimoni e amici credibili mi aprì gli occhi una volta per tutte.
Mi resi conto che ingenuamente avevamo fatto un grande errore: pretendere di accogliere popoli lontani, come se le differenze non esistessero. Pensavamo bastasse la bontà e la gratuità, non sapendo che alcune culture le considerano debolezza. Eravamo convinti che il razzismo riguardasse solo noi italiani, ignorando che a volte riguarda le stesse comunità straniere. Credevamo nel dialogo incondizionato e continuiamo a crederci ma abbiamo anche imparato che per dialogare bisogna essere in due e che il dialogo vero non può che nascere dalla disponibilità a conoscere l’altro e dalla volontà di mettersi intorno a un tavolo disponibili a cambiare qualche idea. Ci è venuto incontro così un metodo che nel corso degli anni, a Torino, in Giordania e in Brasile ci ha permesso di accogliere nella dignità e nel rispetto reciproco oltre centomila persone.
Credo che accogliere chi è in difficoltà sia un dovere, soprattutto per noi italiani che in passato abbiamo trovato riparo in decine di Paesi del mondo. E ancora oggi, all’estero siamo milioni. Credo però che dobbiamo avere il coraggio di mettere da parte una certa idea romantica dell’accoglienza. Sono convinto che non si possa accogliere senza regole che tutelino chi accoglie e chi è accolto, senza mettere in chiaro diritti e doveri, senza l’obiettivo di lavorare insieme per arrivare alla condivisione di valori comuni.
Alle persone che accogliamo – vale per gli immigrati e per gli italiani – chiediamo il rispetto fermo di alcune regole comuni che tutelano la convivenza, i diritti degli uni e degli altri e che, oltre al presente, mettono le basi per costruire un futuro possibile insieme. In questa reciprocità di diritti e doveri, tra le altre cose, chiediamo di imparare l’italiano perché la lingua fa entrare nel cuore di un popolo e di una appartenenza comune. Perché chi arriva qui con il desiderio di rimanere in Italia deve imparare a far suoi i valori della nostra Costituzione, il rispetto reciproco, l’uguaglianza tra uomo e donna, la libertà di professare con libertà la propria fede, di cambiare religione se la propria coscienza lo impone, la reciprocità di diritti e doveri. Così il riconoscimento delle libertà altrui, l’idea che se sbagli, infrangi una regola o passi con il rosso, sei chiamato a risponderne in prima persona. L’accoglienza non può essere improvvisata. Ha senso solo se amata, pensata, costruita insieme, governata.
Negli Arsenali con il tempo abbiamo imparato cosa significa accogliere: abbiamo creato scuole di italiano, ambulatori per curare chi non se lo può permettere, percorsi di lavoro, un asilo multietnico per rendere normale sin da piccoli l’integrazione. E i risultati si vedono: oggi i nostri ragazzi si sentono italiani a tutti gli effetti, hanno colori e religioni diverse ma hanno imparato a volersi bene, a non discriminare chi ha un colore di pelle, una provenienza, una fede diversa dalla propria. Semplicemente perché, guidati e accompagnati, stanno imparando a crescere insieme.
Credo che oggi l’unica strada sia quella di un nuovo patto che leghi l’accoglienza alle regole, al bene comune, ma anche alle risposte delle disuguaglianze di casa nostra. Questa è una responsabilità di tutti! Chi non l’accetta si mette fuori da solo.