Una componente fondamentale della disuguaglianza è la diversa opportunità di avere accesso a un lavoro dignitoso e che possa valorizzare i talenti di ogni persona
A sua volta il lavoro è legato al reddito e quindi alla possibilità di uscire dalla povertà e di poter ambire a retribuzioni più alte e migliori, così come alla possibilità di avere accesso a strumenti di tutela dei diritti del lavoro. Come sottolinea Papa Francesco il lavoro è uno degli elementi fondanti la dignità umana. I messaggi del Papa ai movimenti popolari rimarcano il diritto alle tre T: Tierra, Trabajo (Lavoro) y Techo (casa).
La mancanza di questi diritti è presente in tutti i paesi del mondo. Non ne è esente l’Europa e il nostro paese (anche se in modo meno marcato rispetto ad altre nazioni). Il recente film di Ken Loach, Sorry I missed you, sul mondo del lavoro dei servizi a domicilio, è l’ennesimo pugno allo stomaco che mostra chiaramente come la precarizzazione del lavoro mini la dignità umana, portando a nuove forme di dipendenza e quasi schiavitù. Lavoratori e famiglie vengono fagocitate in un vortice di degrado che sembra non avere speranze di riscatto.
Su questi problemi si concentra il nuovo rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) sulle prospettive dell’occupazione a livello mondiale, sui Trends 2020. Dal rapporto emergono nuovi dati e si confermano processi già conosciuti come la disuguaglianza tra paesi nell’accesso all’occupazione e a miglioramenti del reddito; la disuguaglianza tra i diversi ceti di lavoratori e la conferma dello spostamento del valore dal lavoro al capitale. Sono quattro i messaggi chiave del rapporto.
Primo. I bassi tassi di crescita e la scarsa inclusione impedisce ai paesi più poveri di ridurre la povertà e di migliorare le condizioni di lavoro. Nei paesi più poveri la diversificazione economica è ancora limitata: dal 2000 al 2018 la quota di occupazione agricola e in lavori elementari si è ridotta di solo il 6%.
Secondo. La misura della sotto-utilizzazione del lavoro è più importante e rivelatrice del semplice tasso di disoccupazione: se sono 188 milioni le persone ufficialmente disoccupate, ve ne sono altre 165 milioni che sono occupate ma in modo insufficiente e che vorrebbero lavorare di più, mentre altre 120 milioni sono così marginali che non risultano essere attive nella ricerca del lavoro. Le analisi dovrebbero tenere in maggior conto le situazioni di auto-esclusione, di rinuncia a reclamare il proprio diritto ad una vita e a un lavoro dignitoso. In Europa e in Italia è infatti oramai riconosciuto sempre di più il fenomeno dei Neet: giovani che non lavorano né studiano. “Stando agli ultimi aggiornamenti dei dati Eurostat per l’anno 2018, i giovani Neet italiani tra i 20 e i 34 anni sono il 28,9%. Un dato che è in calo rispetto a quello dell’anno precedente, che era al 29,5% ma che rimane troppo alto, soprattutto perché è quasi il doppio della media europea” (fonte: https://quifinanza.it/lavoro/chi-sono-neet-perche-sono-problema-italia/287070/). Secondo dati Istat i Neet sono oltre 3 milioni.
Terzo, anche quando le persone hanno una occupazione vi sono ampie differenze nella qualità dei lavori. Un lavoro dignitoso significa avere accesso a un reddito adeguato, al diritto a lavorare in un ambiente sano e sicuro, alla protezione sociale, a partecipare attivamente alle decisioni di impresa, ad organizzarsi in sindacati, a non essere discriminati. Le più grandi deficienze si trovano nell’economia informale, nel lavoro autonomo e precario, dove le persone hanno uno scarso accesso alla sicurezza e dove si vivono importanti discriminazioni e condizioni di quasi schiavitù. Questo è evidente anche nei paesi ricchi, come l’Italia, dove la precarizzazione ha ridotto l’accesso ai diritti del lavoro, anche se la disoccupazione è relativamente diminuita negli ultimi anni. E gli ultimi dati ISTAT indicano come questo tipo di lavori (lavori a tempo determinato) abbiano raggiunto un nuovo picco superando le 3 milioni di unità.
Nei paesi a medio e basso reddito, sono circa 1,4 miliardi le persone che lavorano nell’economia informale, in modo autonomo o in famiglia, e che non hanno accesso ad alcuna tutela e protezione. I lavoratori informali sono oltre 2 miliardi a livello mondiale. Ma anche nei paesi ricchi cresce il fenomeno dei lavoratori poveri, soprattutto nel lavoro autonomo. Creando nuove divisioni anche tra gli stessi lavoratori. Sono 630 milioni i lavoratori a livello mondiale che non guadagnano abbastanza per vivere in condizioni dignitose (e cioè che hanno un reddito inferiore ai 3,2 dollari in parità di potere di acquisto).
In quarto luogo, continuano a persistere grandi disuguaglianze nell’accesso al lavoro e a occupazioni di qualità. Ci sono importanti segmentazioni tra i lavoratori a seconda del luogo in cui vivono, tra paesi e tra aree rurali ed urbane, per sesso e per età. I nuovi dati dell’OIL (che includono anche i lavoratori autonomi), dimostrano che a livello globale le disuguaglianze di accesso al reddito sono molto più grandi di quel che si pensava. I tassi di disoccupazione più alti sono registrati in Nord Africa e in Asia centrale e occidentale, L’occupazione è più alta nelle zone rurali rispetto alle aree urbane, ma si registra anche una maggiore sotto-utilizzazione. D’altra parte in Asia orientale e nel Pacifico la trasformazione tecnologica sta creando più posti di lavoro.
Le disuguaglianze nel lavoro dignitoso tra paesi è uno dei fattori che spinge a migrare, soprattutto tra i giovani. Ci si sposta dalle aree rurali a quelle urbane. Questi movimenti sono stati più alti nei paesi a medio e alto reddito, dove ben due terzi della popolazione in età di lavoro vive in aree urbane, con un incremento del 10% dal 2005. Le migrazioni non portano però sempre ad un miglioramento delle condizioni, basti ad esempio citare il caso del caporalato in Italia. Sul quale la Focsiv ha recentemente diffuso un video (https://www.focsiv.it/news/i-migranti-e-il-sistema-del-caporalato-un-video-racconto-sul-tema-delle-migrazioni-e-gli-obiettivi-di-sviluppo-sostenibile/), grazie al progetto Volti delle Migrazioni, co-finanziato dall’Unione europea.
La disuguaglianza nel lavoro è particolarmente evidente nel caso delle donne: il tasso di sotto-occupazione e sotto-utilizzazione delle donne è particolarmente alto nei paesi Arabi e in Africa del Nord, dove è pari a circa il 40%. La disparità a danno delle donne si sconta anche nell’accesso ai lavori di qualità, e nel fatto che ottengono redditi inferiori anche se in occupazioni uguali a quelle degli uomini.
I nuovi dati raccolti dall’OIL confermano come la quota del reddito da lavoro sia diminuita rispetto a quella che va al capitale: dal 54% nel 2004 al 51% nel 2017, soprattutto in Europa, America e Asia centrale. Nel caso dei paesi ricchi questa riduzione si deve principalmente ai nuovi lavori poveri e precari autonomi.
Grafico sulla distribuzione della quota del reddito da lavoro tra aree geografiche dal 2004 al 2017
Il rapporto OIL evidenzia infine come le disuguaglianze nel lavoro e nei redditi stiano portando alla frammentazione sociale e a proteste sempre più diffuse in vari paesi in Europa, dal Medio Oriente all’America Latina, all’Asia. Lo scontento dei lavoratori ha bisogno di risposte efficaci di politica economica e sociale per ridurre le disuguaglianze. Dopo la sbornia neoliberale (che peraltro continua a persistere) è evidente la necessità di riaffermare i diritti del lavoro di tutti, e in particolare dei gruppi più svantaggiati, donne, precari e migranti.