Il prossimo 11 febbraio si festeggerà la XXVIII Giornata Mondiale del Malato istituita da Giovanni Paolo II nel 1992 con lo scopo di “sensibilizzare il popolo di Dio e, di conseguenza, le molteplici istituzioni sanitarie cattoliche e la stessa società civile, alla necessità di assicurare la migliore assistenza agli infermi; di aiutare chi è ammalato a valorizzare, sul piano umano e soprattutto su quello soprannaturale, la sofferenza […]”.
Mai come oggi appaiono chiare la forza e la necessità che il Santo Padre ha voluto imprimere al suo messaggio: “Attraverso i secoli e le generazioni è stato costatato che nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo, una particolare grazia”. In questi giorni di lavoro per impedire al Coronavirus di diffondersi e uccidere, le parole consolatorie di San Giovanni Paolo II sono di grande aiuto a quanti hanno paura del contagio, a quanti hanno avuto la sfortuna di ammalarsi, ma soprattutto a quell’esercito di operatori sanitari, professionisti e volontari, che hanno il compito di curare e sostenere i pazienti nella malattia.
Come lo stesso Pontefice ha voluto puntualizzare in occasione della prima Giornata del Malato, pure le istituzioni devono fare la loro parte in questa partita per la vita. Su questo piano il nostro Paese costituisce senza dubbio la punta di diamante della sanità mondiale, ne è prova la capacità e la velocità con cui gli scienziati dello Spallanzani hanno isolato il virus in laboratorio. Ma l’Italia è altresì un’eccellenza sul piano politico e sociale, non a caso l’articolo 32 della Costituzione italiana considera la salute un diritto dell’individuo e un interesse della collettività e, garantendolo anche agli indigenti, gli assegna un valore universale. Nonostante la narrazione che emerge dai media e dai social network tenda a descrivere il nostro Sistema Sanitario come pessimo e farraginoso, questa idea positiva risulta piuttosto condivisa dai nostri concittadini: in un’indagine Deloitte, pubblicata qualche giorno fa, dal titolo “Outlook Salute Italia 2021”, la sanità pubblica italiana riceve un punteggio medio di soddisfazione pari a 6,3 punti su 10 possibili. In particolare, a ricevere i voti positivi e più elevati sono il servizio di pronto soccorso e i medici di base, in poche parole: la prossimità.
Ma non tutto funziona come dovrebbe. L’indagine mette in evidenza alcune zone d’ombra della nostra sanità pubblica: da qualche anno si registra un aumento delle diseguaglianze nell’accesso ai servizi e alle cure, sintomo di un sistema universale un po’ in affanno. Gli eccessivi tempi d’attesa, soprattutto per le visite specialistiche, e la necessità di ospedali di maggiore qualità spingono molte persone a trovare soluzioni nel privato (convenzionato) o a migrare presso le strutture ospedaliere di altre Regioni italiane. Questa forma particolare di turismo comporta notevoli sforzi economici per le famiglie: il 43% ha speso per supporto (viaggio, alloggio, etc.) tra i 200 e i 1000 Euro, mentre il 21% tra 1000 e 5000 Euro. Il 45% dichiara che la spesa ha avuto un impatto abbastanza importante sul bilancio familiare. Secondo un’altra indagine dell’Osservatorio welfare familiare, nel 2017, il 74,4% dei migranti sanitari sosteneva la spesa con il proprio reddito, il 17,5% con i risparmi, l’8,1% chiedendo un sostegno ad amici o conoscenti. In ogni caso entrambe le ricerche citate (quella dell’Osservatorio welfare familiare e della Deloitte) rilevano che il peso di questa spesa sull’economia familiare non è trascurabile e spesso nei casi più estremi costringe alla rinuncia: ben una persona ogni quattro! Al Sud oltre uno su tre, ancora di più tra chi ha meno disponibilità economiche.
Verrebbe da pensare che la povertà, soprattutto nel Meridione, costituisca un imponente ostacolo all’esercizio completo della “cittadinanza sanitaria”, essa impedisce la cura anche in un sistema universalistico. Dunque, sconfiggendo la povertà dovremmo risolvere il problema. Ciò purtroppo non è totalmente corretto, dato che l’accesso alla cura non dipende direttamente dal reddito, pure se tra le due dimensioni si registra una correlazione empirica. In un sistema come il nostro, universale, dove il diritto alla salute è garantito agli indigenti, le differenze economiche non dovrebbero tradursi in disuguaglianze sanitarie e, dunque, il problema non dovrebbe né potrebbe essere risolto con una misura contro la povertà assoluta, che peraltro ha diversi e altrettanto nobili obiettivi.
Anche se è probabile che nei prossimi anni si registreranno dei miglioramenti dovuti agli effetti secondari del reddito di cittadinanza, la verità è che, soprattutto nel Mezzogiorno, le differenze di accesso alle cure sono il risultato negativo di uno squilibrio nella spesa pubblica. Secondo Eurispes, nel 2016, la spesa pro capite al Nord era di circa 15.000 Euro, contro i 12.000 Euro spesi al Sud. In meno di venti anni, 2000/2017, al Sud sono stati sottratti più di 840 miliardi di Euro. È tempo di invertire la rotta e rendere reali i dettami della nostra amata Costituzione, affinché il diritto alla salute sia di tutti e non venga condizionato dal reddito o dalla latitudine. In occasione della XXVIII Giornata Mondiale del Malato chiediamo, quindi, al Governo in carica di tornare a investire al Sud e riequilibrare i flussi economici, creando servizi di qualità fruibili da tutti, in particolare dagli ultimi, i cittadini più poveri e svantaggiati, offrendo loro maggiori opportunità di cura, perché è pure attraverso la possibilità di vivere in buona salute che passano la dignità e l’uguaglianza.