La pandemia ci ha coinvolti in modi diversi in questo breve eppure lunghissimo lasso di tempo. Inizialmente, quando le informazioni sul virus e sulla malattia erano ancora scarse, l’attenzione dei media e delle Istituzioni era rivolta principalmente a cercare di contenere risposte fobiche da parte della popolazione, che rischiavano di generare reazioni di panico, le quali rappresentano sempre un pericolo. Successivamente, man mano che in Cina e in Italia la situazione diventava più chiara, sia in termini di gravità che di possibilità protettive, la priorità è stata assegnata giustamente a organizzare e comunicare le misure necessarie al contenimento dell’infezione.
Successivamente, abbiamo visto la situazione peggiorare rapidamente: il pericolo da lontano è diventato vicinissimo, e ha assunto un perimetro che andava ben oltre gruppi di comuni o singole regioni. A un certo punto, è stato chiaro che il problema riguardava tutti.
Una realtà, questa, alla quale (se escludiamo il mondo scientifico degli addetti ai lavori) nessuno era preparato. Siamo così lontani nel tempo dall’ultima pandemia che ha colpito il nostro Paese e così lontani nello spazio da quelle che purtroppo affliggono altre aree del pianeta, che davvero il pensiero che potesse accadere in Italia, adesso, con le attuali conoscenze scientifiche e abitudini igieniche, non era contemplato se non nella mente di pochi.
E invece ora nessuno può sentirsi al di fuori di quanto sta accadendo, né tirarsi indietro.
Cosa comporta questo in termini psicologici?
Senza scendere nel dettaglio delle infinite reazioni e conseguenze emotive legate a questa nuova e sconosciuta condizione, ci piacerebbe soffermarci su un aspetto in particolare, sul quale può essere utile riflettere.
Il pericolo del contagio ci ha improvvisamente richiamati all’azione comune. Da un giorno all’altro, ci siamo trovati in una realtà nella quale è il dovere a fare la parte del leone e a gestire le nostre giornate e i nostri comportamenti. Non solo, è una realtà che ci mette di fronte alla necessità della reciprocità: abbiamo possibilità di salvarci solo se ognuno si pensa e agisce come parte di un tutto. Questo stato di cose porta con sé una serie di riflessioni su quanto davvero il benessere e la stessa sopravvivenza del singolo sia legata alla collettività: ora questo è concretamente chiaro.
Nelle nostre menti, dunque, si fa strada in modo prepotente la consapevolezza di essere simili all’interno di uno stesso destino.
In questo brusco passaggio ci ha senz’altro aiutato molto il web, e ci aiuta tuttora. Attraverso la rete, alcune cose diventano più chiare: i siti istituzionali spiegano nel dettaglio le norme e i dati di cui veniamo a conoscenza tramite la televisione; le lezioni online permettono di non interrompere la formazione; l’intrattenimento riempie le giornate di molti e allevia la noia. Più di tutto, in questo momento gli innumerevoli canali comunicativi del web ci aiutano a scambiarci informazioni, suggerimenti, riflessioni e sensazioni. Mai come adesso, la condivisione sembra essere importante. Ci fa sperimentare quanto un essere umano possa avere di uguale a un altro essere umano, quanto possa essere vicino non solo perché legato a una sorte comune, ma anche perché attraversato dalle stesse paure, dalle stesse speranze.
Contemporaneamente, però, la quantità di scambi tipica di questo momento, così concentrata su un solo argomento, può nascondere un’insidia: può diventare pervasiva. In particolare, è la serie di informazioni che riguardano il sentire a essere chiamato in causa. E’ molto facile, infatti, imbattersi in consigli su come vivere la quarantena, cosa rivalutare di sé e del mondo, come considerare gli affetti, come gestire se stessi. L’impressione che se ne può ricavare è che esista un modo corretto per approcciarsi emotivamente a questo evento. Può capitare, allora, che sentiamo che il nostro modo si discosta molto da ciò che sembra essere condiviso da molti. Può capitare che ci si vergogni del proprio modo di vivere questa situazione, che ci si senta soli, strani, in qualche modo sbagliati. Il rischio che si può correre è di avvertire che la propria individualità sia sopraffatta dal sentire comune.
Forse può essere importante sapere che non esiste un modo per affrontare un evento come questo. Esistono infiniti modi. Non c’è qualcosa di corretto, di giusto da sentire. Anche se gli esseri umani vivono sentimenti simili, non ci saranno mai due persone che sentono esattamente la stessa cosa. In ognuno di noi il virus, il pericolo, le restrizioni, la distanza sociale rappresentano cose diverse e fanno risuonare emozioni differenti: alcuni sono terrorizzati, altri arrabbiati, alcuni tristi, alcuni sereni e anche felici. E’ importante che ognuno senta di poter vivere le proprie emozioni liberamente. Anche quando sentiamo di non poterle condividere, o di non volerlo fare, è utile non nasconderle a noi stessi, e sentirci nel pieno diritto di provarle. Quando non ci sono più le nostre abitudini a ricordarci chi siamo, quando mancano le persone e i contesti in cui siamo di solito immersi, e che contribuiscono a definire la nostra identità, possiamo almeno recuperare le nostre piccole differenze, tenerle con noi e renderle preziose. Ciò ripara dallo smarrimento, da quel senso di vuoto che l’ansia può portare con sé in un momento così difficile, e che potrebbe sfociare in un vero e proprio vissuto di frammentazione, di non esistenza.
Continuare a occuparci di chi siamo, ricordarlo a noi stessi, inoltre, ci permette anche di prepararci al nuovo che inevitabilmente verrà. Per molti versi, il futuro dopo la pandemia è al momento ignoto. Ognuno di noi avrà a che fare con qualcosa che non si aspettava, che non aveva previsto, che non è ancora conosciuto. Possiamo affidarci a ciò che conosciamo: ai nostri pensieri; alle nostre emozioni; ad alcune reazioni che ci fanno sorridere perché le abbiamo avute tante volte; alla memoria e ai ricordi, che fanno la nostra storia. In questo modo, avremo qualcosa di noto ad accompagnarci nel cammino.
Non da ultimo, c’è un altro aspetto importante che collega la singolarità alla collettività. Tenere a mente il nostro modo di essere ci mette al riparo da ciò che nel linguaggio psicoanalitico si chiama acting out, e cioè la tendenza a trasformare in azioni un vissuto che non siamo consapevoli di avere. Quando, per innumerevoli motivi, non è possibile elaborare un contenuto inconscio, un evento traumatico, un’emozione particolarmente intensa o spiacevole, può accadere che la mente utilizzi l’azione per comunicare che quell’emozione o quel contenuto esistono, ma lo fa in modo più primitivo, e al di fuori del controllo cosciente. Ne possono scaturire azioni che sono funzionali a comunicarci il nostro disagio, ma disfunzionali in termini di relazione con l’altro o anche di sicurezza nostra e altrui. In questo periodo di forte tensione, il rischio che si può correre è di avere reazioni che affermino la propria individualità in un modo inappropriato, ad esempio contravvenendo alle prescrizioni dell’Autorità pubblica. Alcune persone, soffrendo particolarmente le restrizioni alle quali siamo tutti obbligati, potrebbero ritrovarsi così a trasgredire le attuali e fondamentali norme di comportamento per rivendicare la propria libertà e riappropriarsi in questo modo di sé, mettendo in grave pericolo se stesse e gli altri. Per questo, la riflessione su quanto sta accadendo fuori ma anche dentro di noi può essere utile a farci sentire meno “ingabbiati”. Se coltiviamo, nei modi possibili, la nostra personalissima singolarità, possiamo anche ridurre questo rischio.
L’equilibrio tra individuale e collettivo è sempre difficile. Nei momenti di grande stress generale, è ancora più delicato, e richiede grande impegno. Essere consapevoli di quanto ci accomuna ma anche di quanto ci distingue dagli altri aiuta a occuparci di questo equilibrio. E’ un compito arduo, e ricco di tensioni, ma non senza uscita, né senza possibilità. Dobbiamo agire nello stesso modo, ma possiamo ancora, e sempre, sentire a modo nostro.