Può sembrare strano (o forse no) ma in questi giorni di isolamento forzato e di distanza di sicurezza prolungata, abbiamo capito, come forse mai prima, quanto siamo inestricabilmente legati gli uni agli altri. Abbiamo scoperto di aver provato le stesse emozioni, di esserci sentiti fragili ed esposti allo stesso modo. È come se avessimo avvertito ciascuno una parte di sé nell’altro. Più di ogni ragionamento filosofico è valsa l’eloquenza delle immagini, dei gesti, degli sguardi e dei silenzi.

E ora che la vita riprende, vorremmo che tutto questo non si perdesse. Lo vorremmo perché intuiamo che c’è dentro una promessa di umanità da cui ripartire.

Questo tempo ci ha consegnato le storture di un sistema di vita, e di vita comunitaria, per molti versi malato. Basti pensare alla sanità troppo sbilanciata sugli interessi privati, inchiodata a una carenza di risorse e di strutture in certi casi drammatica, priva di una rete territoriale adeguata. E poi la trama delle attività produttive con le sue ampie sacche di lavoro nero, se non addirittura di sfruttamento, e di precariato privo di ogni tutela. Ma anche la scuola e l’università su cui così poco si è investito da troppi anni. E la ricerca, penalizzata e costretta spesso a migrare alla ricerca di contesti migliori. Le lacerazioni del tessuto comunitario sono emerse in questi ambiti troppo spesso lasciati a se stessi o saccheggiati per fini particolari. Questi ambiti, unitamente alla sfera della cultura e dell’arte, sono apparsi per ciò che sono: determinanti per la costruzione di una vita comunitaria in cui potersi riconoscere, essenziali per poter alimentare il nostro essere comunità e averne cura.

Il lavoro da casa, le lezioni a distanza, la spesa online, i dibattiti culturali su piattaforme digitali aperti a un pubblico mai così ampio, le biblioteche e i musei in rete, i siti archeologici e artistici accessibili a visite virtuali, le catechesi e le liturgie in streaming: tutta la vita improvvisamente trasferita in digitale, le relazioni e gli incontri compattati in una sola dimensione, mediati da uno schermo e nello stesso tempo allargati a coinvolgimenti inediti. Una situazione singolare che non avevamo mai sperimentato: così distanti e nello stesso tempo così vicini. Il rarefarsi delle relazioni nell’impossibilità di condividere uno stesso luogo e il loro innegabile rafforzarsi nell’esperienza di un essere insieme che è ancora più profondo. Perché l’essere comunità è scritto dentro di noi, ci appartiene come tratto qualificante del nostro essere umani. È ciò a cui siamo continuamente rinviati dalla nostra stessa vita, se solo impariamo ad ascoltarla come forse è accaduto in questi giorni. È per questo che non vorremmo dimenticarlo ora che la frenesia di ritornare per strada, di ricominciare a produrre a pieno ritmo, rischia di travolgerci in un’ansia di normalità che spazza via quel che è stato. Non possiamo e non dobbiamo semplicemente tornare alla situazione precedente. Abbiamo uno sguardo nuovo e forse anche un cuore nuovo. Le lacrime al femminile che hanno accompagnato l’annuncio di un provvedimento che mira a ridare dignità a chi è stritolato dal sistema, confinato nell’invisibilità da una logica di corruzione e di ottuso profitto, possono anche essere criticate o peggio ancora stupidamente ridicolizzate, ma ci dicono qualcosa di assolutamente importante. Dobbiamo avvertire dentro di noi la vita dell’altro, la sua situazione, le sue sofferenze. Perché sono parte di me. E non importa chi è, da dove viene. Sentirsi corresponsabili della vita comune senza chiudere gli occhi davanti alle ingiustizie e alle iniquità del sistema, vivere la corresponsabilità in ordine alle possibilità offerte all’esistenza di ciascuno e di tutti, è ciò che ci fa veramente umani. In questi giorni lo abbiamo avvertito e non dobbiamo dimenticarlo. Così come abbiamo capito che la trama delle nostre relazioni è tutta connessa e che lo spazio della casa è essenziale alla vita della città, ma che di questo spazio bisogna aver cura perché è solo nell’interazione adeguata e nella articolazione equilibrata di pubblico e privato che si costruisce la comunità.

Una lezione, anche questa, da non dimenticare.

 

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A questo tema la rivista Dialoghi ha dedicato il Dossier Cosa ci fa comunità del numero 1/2020 e il Quaderno Speciale 2020 La fede e il contagio. Nel tempo della pandemia (entrambi disponibili gratuitamente).