Sono ormai diverse settimane che dibattiamo sul sistema sanitario. Con il dipartimento welfare, di cui ho la responsabilità politica, abbiamo preso le mosse da un report agile; poi abbiamo chiesto a numerosi esperti di offrire la propria opinione sui principali limiti del welfare italiano, in special modo la sanità pubblica. Con nostra sorpresa sono stati molti i contributi ricevuti e ancora altri sono in lavorazione. Possiamo quindi fare una prima sintesi/bilancio, che proponiamo di seguito.
Lo smart report pubblicato anche in forma breve dal sito Percorsi di Secondo Welfare percorre la storia degli ultimi dieci anni del nostro Sistema Sanitario Nazionale. Come anticipato, da questa indagine effettuata sui dati del Ministero della Salute ha preso avvio una discussione con esperti, che ha “toccato” molti argomenti. Sono numerosi gli osservatori che hanno partecipato, e molti ancora stanno elaborando i loro contributi. Hanno già risposto: Roberto Speziale (Presidente Nazionale Anfass); Vincenzo Frusciante (Primario Emerito di Medicina Nucleare di “Casa Sollievo della Sofferenza” di San Giovanni Rotondo), Paolo Siani (Pediatra e Parlamentare), Ubaldo Pagano (Deputato e Manager dei servizi socio-assistenziali), Valentino Santoni (Ricercatore Secondo Welfare). La lettura che ne è emersa è corale, articolata e influenzata dai differenti punti d’osservazione; ciò non di meno, alcune dimensioni messe a fuoco negli elaborati coincidono.
Tutti concordano, appunto, sul fatto che la gravità della pandemia in Italia sia anche connessa all’indebolimento del Sistema Sanitario Nazionale, avvenuto negli ultimi anni e messo in luce dallo Smart Report, cui rimandiamo per un approfondimento. Secondo Roberto Speziale, nella storia del SSN esiste un “peccato originale” da cui tutto ha avuto inizio: “occorre fare chiarezza sulla questione delle risorse. Con la legge 833 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, [grazie all’articolo 1, nda] La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana”. Con la legge 502 del 1992 […] si inserisce il principio che il diritto alla salute continua ad essere garantito ma viene subordinato alle risorse disponibili […] Allo stesso tempo si dà avvio all’aziendalizzazione del sistema sanitario”.
Di questo avviso sono anche Vincenzo Frusciante e Ubaldo Pagano quando sostengono che piegando l’offerta sanitaria alle “ragioni della cassa” è stato determinato un arretramento del pubblico in favore dei privati.
Le ragioni economiche, dunque, sembrano essere alla base della difficoltà che ci hanno impedito di rispondere adeguatamente alla prima ondata di infezioni avvenuta qualche settimana fa. Non tutto, però, può essere ridotto a questioni economiche. Secondo i nostri autori c’è anche un problema di “governance”, ossia di come la sanità italiana è stata, ed è tutt’ora, gestita o mal gestita. Su questo specifico piano, la parola chiave/ricorrente è centralizzazione. Molti autorevoli osservatori concordano sul fatto che, per evitare la frammentazione riscontrata in questi giorni drammatici, sia necessaria una cabina di regia statale. Più nel dettaglio, qualcuno ha ventilato la necessità di trasferire maggiori competenze allo Stato centrale. Va osservato che per molti autori la centralizzazione non riguarda soltanto la “testa” del sistema, essa coinvolge, per così dire, anche la “coda”, cioè l’utente finale: i cittadini/pazienti dovrebbero essere seguiti attraverso progetti personalizzati, centrati sulla persona. Dunque, nel nostro specifico dibattito questa parola chiave ha assunto anche un’altra accezione; è stata ridefinita e spogliata del suo significato originale, legato al potere e alla gestione efficiente, e gli è stato assegnato il significato vicino a seguire meglio, focalizzare, ossia mettere a fuoco, vedere con più precisione e, di conseguenza, agire con maggiore efficacia.
La discussione sulle evidenze empiriche dello Smart Report ha spesso trovato sovrapposizioni e consenso sul problema del territorio. La nostra tesi, infatti, riportata nel titolo stesso dell’indagine, è che il territorio potrebbe diventare una trappola per i cittadini se non provvisto di tutti i servizi necessari ad affrontare le emergenze. Non stupisce, in effetti, che proprio in questi giorni, la possibilità che il Coronavirus colpisca ferocemente anche quelle Regioni o quei territori deboli sotto il profilo dell’assistenza territoriale ci preoccupa non poco. La saturazione degli ospedali “virtuosi” del Nord ha determinato l’impossibilità di accogliere nuovi malati da fuori Regione, impedendo di fatto qualunque forma di compensazione sanitaria, sia quella tradizionale Sud-Nord, sia quella frontaliera, sia quella intra-regionale, cioè effettuata entro i confini di una stessa Regione. La pandemia in atto ha reso chiaro che senza un territorio ben attrezzato la libertà di cura è messa seriamente a rischio. Questa riflessione è ben presente praticamente in tutti gli elaborati pubblicati sul nostro sito Acli: “sarà fondamentale ridisegnare l’offerta sanitaria: sia in termini organizzativi, puntando sul potenziamento delle reti di medicina territoriale e sull’integrazione di queste ultime con gli altri servizi e prestazioni sociali offerti dallo Stato” (Ubaldo Pagano). Quella appena riportata non è una semplice opinione, ma soprattutto il frutto di una corretta lettura comparativa di quanto accaduto nelle Regioni del Nord. Le Regioni Veneto e Emilia Romagna, a differenza di altre aree, pur registrando dei tassi di contagio molto elevati, sono riuscite a contenere la diffusione del virus proprio grazie ad una buona organizzazione del territorio, che ha permesso di curare gran parte dei malati nei luoghi di residenza, limitando ai casi più gravi (non pochi) i trasferimenti in ospedale. In questo caso, la parola chiave, ricorrente sia dai testi pubblicati che dalle discussioni telefoniche con gli stessi autori, è integrazione territoriale, da non confondere con il localismo e le sue perverse logiche, che al contrario tende alla disgregazione e alla frammentazione funzionale, come sostenuto da Vincenzo Frusciante.
Al puzzle appena descritto gli osservatori intervenuti hanno aggiunto un’ulteriore tessera. Dalle loro pagine emerge con forza la necessità di integrare e rafforzare il servizio pubblico, ma “senza necessariamente escludere il concorso dei privati. Piuttosto, integrando la loro azione a quella pubblica, assicurandosi che le prestazioni offerte […] rispettino i livelli minimi standard” (Ubaldo Pagano). Durante le nostre discussioni in numerose occasioni, infatti, è emerso il ruolo del comparto privato: il più delle volte l’accezione è stata negativa, in alcuni casi invece positiva.
Rompendo un po’ gli schemi, Valentino Santoni ha offerto una lettura differente su questo tema, evidenziando la capacità che hanno avuto le Società di Mutuo Soccorso di offrire una risposta immediata ai mutuatari in questi difficili mesi di lockdown. In particolare, molte di esse hanno deciso di offrire sussidi giornalieri in caso di ricovero per tutti, a prescindere dalle forme di adesione scelte in precedenza. Secondo Santoni, le SMS hanno svolto un ruolo cruciale anche durante questa crisi, grazie alla loro capacità di socializzare i rischi privati, costruendo una risposta solidaristica. Infine, poco citato ma molto importante, è stato il contributo offerto dal welfare aziendale in questa crisi sanitaria: “nel corso di tutto il periodo più difficile della pandemia molte imprese hanno comunque continuato a svolgere le loro attività. Comprendendo la complessità dei lavoratori e del sistema Paese, inoltre, molti imprenditori – anche grazie al ruolo dei sindacati – hanno dato vita a politiche e progetti di welfare aziendale e responsabilità sociale per fornire un sostegno concreto ai propri lavoratori, ai loro familiari e, in alcuni casi, anche alla comunità in un momento di emergenza” (Valentino Santoni). In particolare, molto proficuo è stato l’impiego del cosiddetto smart working: grazie a questo peculiare rapporto di lavoro, molti lavoratori hanno potuto continuare a lavorare da casa, tutelando il loro reddito, ma soprattutto evitando il rischio del contagio. Interessante notare che l’utilizzo massivo dello strumento ha fatto emergere sia la capacità di soddisfare gli scopi per cui è nato, cioè conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, sia la sua utilità sociale, eliminando all’origine la possibilità di innesco di catene di contagio tra i lavoratori, che invece hanno potuto lavorare da remoto in piena sicurezza. Esso, dunque, è anche un ottimo strumento di prevenzione sanitaria. Di nuovo il significato che informa una modalità particolare di lavoro è cambiato, migrando dall’area semantica dei rapporti privati, ha invaso il territorio dell’interesse pubblico e della tutela sanitaria.
La discussione innescata in queste settimane di quarantena ci ha permesso di ampliare i nostri orizzonti, ci ha dato modo di vedere alcuni aspetti del SSN con occhi differenti. Quella che è emersa con chiarezza è soprattutto la capacità di questa esperienza di cambiare il senso delle cose, di risignificare alcune parole/concetti. Ci ha permesso di guardare in modo diverso alla realtà che abbiamo (e stiamo vivendo), offrendoci panorami che prima ci sfuggivano. Non si tratta necessariamente di cose nuove, né sempre positive e utili, ma di nuovi significati che informano e danno sostanza alla nostra esperienza; significati mutevoli e sempre in via di definizione, che vanno “colti al volo” e fissati, per essere raccontatati e fare in modo che rimangano impressi nella memoria di ciascuno, così come li abbiamo vissuti. Saperli ascoltare, cogliere e utilizzare al meglio sarà fondamentale per il futuro. Questa sembra essere la prima lezione della discussione sin qui fatta: una questione di metodo, che ci impone di restare in ascolto della storia che stiamo vivendo, averne cura, per non disperderla.
[L’articolo sarà pubblicato anche nel sito benecomune.net]