Tra guerra e prosperità
Se volessimo fare una rapida carrellata di ipotesi fantapolitiche sulle possibili cause e conseguenze del conflitto in corso nel Tigray, dovremmo anzitutto indagare sui contenuti dell’accordo di pace siglato nel 2018 tra Isaias Afwerki (Eritrea) e Abyi Ahmed (Etiopia), ma naturalmente non vi è traccia pubblica di quanto concordato fra i tre, riconoscendo all’Arabia Saudita un ruolo assolutamente attivo svolto anche per conto di altri attori internazionali aventi interessi nella regione. La guerra tra i due Paesi, disastrosamente guerreggiata tra il 1998 e il 2000, aveva come territori di maggiore contesa le località di Badmè, Tsorona e Zalambessa, territori all’apparenza quasi insignificanti dal punto di vista delle risorse agricole e minerali che da essi possono essere ricavate, ma non certamente per lo sfruttamento delle acque dei fiumi Mereb e Tekezè/Setit che li attraversano e che per lunghi tratti demarcano anche il confine politico tra i due Stati. Entrando in Sudan, il Tekezè si immette nell’altro grande fiume etiopico Atbara (detto anche Black Nile), proveniente dalle montagne a nord della città storica etiopica di Gondar, che poi confluisce nel Nilo nel punto in cui sorge l’omonima città sudanese di Atbara, a 350 Km a nord di Khartoum, la capitale sudanese dove invece si uniscono i due rami principali del fiume più lungo del mondo: il Nilo Bianco, proveniente dalla regione dei Grandi Laghi, e il Nilo Azzurro, proveniente dall’Etiopia, che fornisce oltre l’80% dell’acqua del Nilo.
L’ambizioso progetto della Diga del Millennio, portato avanti con decisione dall’allora premier etiopico Meles Zenawi leader del TPLF (Tigray People Liberation Front), alla fine del secolo scorso, poteva trovare giustificazione in un’ottica non certo secessionista da parte del Tigray, ma piuttosto contando su una egemonia politica di lunga durata, visto che la diga è situata in prossimità del confine con il Sudan, nella regione del Benishangul-Gumuz posta politicamente (e non solo) ai margini degli interessi geopolitici ed economici dell’Etiopia.
Puntando ad una stabilità politica garantita dal predominio del Fronte tigrino, con il controllo su un federalismo liberale e democratico, il progetto ha preso consistenza e sta per essere portato a termine in tempi relativamente brevi, offrendo all’Etiopia un ruolo di primaria importanza nel Corno d’Africa per la produzione di energia elettrica di cui tutti i paesi confinanti ed altri ancora, sono quantomeno i potenziali beneficiari (e clienti!). Ad esclusione, forse, dell’Eritrea visto il permanere delle discordie tra i due Paesi.
Ma la firma della pace nel 2018 deve aver scombinato in qualche modo i piani del TPLF, magari con l’apertura non solo delle frontiere (peraltro ancora ben lontana dall’essere concretamente realizzata), ma anche con l’estensione delle linee ad alta tensione che dalla grande diga potrebbero portare fino ad Asmara e a tutta l’Eritrea l’energia elettrica prodotta dalle turbine alimentate dall’acqua del Nilo. Certo, è difficile per il TPLF accettare un accordo di pace i cui contenuti non sono per ovvie ragioni resi del tutto noti, dopo aver combattuto per la liberazione dell’Etiopia dal regime filosovietico di Menghistu Hailemariam e dopo aver più recentemente subito i maggiori danni di una guerra fratricida con l’Eritrea, anche se il contributo e il sacrificio di vite umane dato da tutta la popolazione etiopica, soprattutto di provenienza oromo e amhara, è alquanto considerevole, benché non siano tuttora disponibili dati ufficiali sui morti della guerra tra il 1998 e il 2000.
Se da un lato il merito (ammesso che tale possa essere) della costruzione della GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam – la Grande Diga del Rinascimento Etiopico) è di Meles Zenawi e della parte politica tigrina da lui rappresentata, dall’altro lato bisogna considerare anche il carico economico e finanziario che quella mastodontica impresa ha determinato per le casse dello stato federale alle quali ciascuna regione è stata chiamata a contribuire secondo i criteri stabiliti dalla Costituzione. Indubbiamente la Diga è proprietà dell’Etiopia e non di una sua singola parte, e quindi, oltre agli oneri, anche i suoi ritorni economici e politici dovrebbero essere condivisi equamente con tutta la popolazione dell’intero Paese; e in effetti questo è quanto era riuscito a far percepire alla popolazione etiopica il carismatico premier tigrino nel lanciare la campagna di sostegno alla costruzione della Diga del Millennio. Come risulta ben chiaro anche dalle tribolate consultazioni che finora non sono riuscite a mettere d’accordo l’Etiopia con Sudan ed Egitto sull’utilizzo delle acque del Nilo Azzurro, la creazione dell’immenso invaso idrico necessario per alimentare le turbine a valle della diga, ha portato il governo egiziano ai più alti livelli di allerta, avvertendo la diga come una “minaccia esistenziale” in quanto il Paese nordafricano fonda la sua sussistenza alimentare soprattutto sulla disponibilità dell’acqua del Nilo. Non di meno l’Etiopia può vantare il diritto di utilizzare il corso del Nilo Azzurro per garantirsi un altrettanto strategica e vitale risorsa energetica.
Il Presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, non ha mai nascosto la preoccupazione e le minacce di ritorsioni anche di tipo militare per le quali anche l’Amministrazione statunitense, per bocca del Presidente Trump, si è spesa anche recentemente, appoggiando un eventuale attacco aereo alla diga da parte dell’Egitto, il cui Presidente è stato definito da Trump come il suo “dittatore preferito”. E’ quindi auspicabile che la nuova Amministrazione statunitense a guida Biden riveda le sue posizioni rispetto all’appoggio incondizionato offerto all’Egitto al quale è ben disposta ad offrire assistenza militare fornendo i missili necessari per effettuare un eventuale attacco, senza rinunciare, però, a mettere a disposizione dell’Etiopia le batterie antiaeree in grado di intercettare anche i missili egiziani targati USA.
L’acqua del Nilo sta diventando un liquido sempre più “infiammabile” e c’è sempre qualcuno che la guarda con il cerino acceso in mano; è oramai tanto rovente da innescare focolai di guerra ovunque lungo i suoi quasi 7 mila chilometri di percorso, dalle varie sorgenti nel cuore del Continente africano fino alle foci in quel Mare Nostrum i cui fondali fanno da cimitero per le migliaia di uomini, donne e bambini che, pur essendo riusciti a mettersi in salvo da quelle guerre, non ce l’hanno fatta a raggiungere l’Europa dove poter trovare la pace e la dignità brutalmente negategli a casa propria.
In questo particolare contesto di conflitto interno che può assumere i caratteri di una guerra civile ed eventualmente estendersi a livello regionale, il ruolo delle diverse confessioni religiose può risultare determinante per la mitigazione delle controversie. La Chiesa cattolica etiopica, in particolare, pur contando su un numero di fedeli che non supera l’1% della popolazione, per ora non può fare altro che sostenere e confermare il fermo appello di papa Francesco fatto al termine dell’Agelus di domenica 8 novembre scorso, rivolto alle parti in causa, perché cessino le azioni di violenza e si giunga ad una soluzione pacifica del conflitto.
Una parte significativa del clero cattolico, tra vescovi, sacerdoti diocesani e religiosi delle diverse congregazioni, è di origini tigrine e l’evoluzione della situazione potrebbe condurre al ripetersi nei confronti dei tigrini di quanto già avvenuto nel 1998 con le espulsioni degli eritrei dall’Etiopia, compresi preti e suore colpiti dalla montante rabbia vendicativa contro il “nemico” eritreo, nelle strade come nei conventi. Per scongiurare questa eventualità il premier Abyi Ahmed ha fortemente invitato la popolazione a non cedere a sentimenti xenofobi e a forme di discriminazione nei confronti di persone di origine tigrina o comunque di appartenenza a popolazioni diverse da quelle maggioritarie a livello regionale. E proprio questa, insieme al sanguinoso scontro in corso tra governo federale e TPLF, è la sfida che l’Etiopia unita deve saper pacificamente vincere, contando sulla maturità politica che i suoi governanti sono in grado di esprimere, tanto a livello federale che regionale.
Se non risulta chiaro a chi può davvero giovare una nuova guerra nel Corno d’Africa, è però del tutto evidente che a pagarne le conseguenze, come sempre, è la popolazione più povera e ancor più impoverita dalla perdita di speranza in un futuro di pace e di giustizia.