Agli inizi della storia del Sermig, mi ero ripromesso che non avrei mai parlato in pubblico, volato e soprattutto avvicinato i poveri a tu per tu. Ero e mi sento ancora un timido, ma il bello della vita è che Dio passo dopo passo può cambiare i tuoi piani, aspettando i tuoi tempi. E così mi sono ritrovato a parlare migliaia di volte in pubblico, a prendere mille e mille aerei e a incontrare volti e lacrime inimmaginabili. La porta aperta dell’Arsenale della Pace a Torino mi ha fatto conoscere da vicino tragedie apparentemente lontane che all’improvviso si incarnavano nella storia che avevo di fronte.

Ricordo come fosse ieri lo sguardo bambino di Mary, il suo ripetere continuamente la parola “Money”, soldi. Era la chiave di lettura della sua storia: l’infanzia trascorsa in un paesino della Nigeria, l’invito di una persona vicina a mettersi in viaggio per l’Europa, la fiducia iniziale che apre le porte all’inferno. Quei soldi che Mary ha dovuto tirare fuori ad ogni confine. Poi, le violenze, le minacce, tante botte. Così fino alla tappa finale: le spiagge del Mediterraneo, l’ultima fatica da compiere dopo aver visto tanti compagni morire nel deserto. Ma Mary non ha avuto fortuna. Si è ritrovata per due volte su una carretta del mare, puntualmente bloccata e riportata indietro dalle motovedette libiche. Anche loro chiedevano “money”. “Se non paghi, non hai speranza – mi aveva raccontato Mary – ma io non avevo più nulla con me. Ho chiamato casa, mia mamma non poteva più aiutarmi. Piangevo. Niente”. Mary fu così arrestata e portata nell’abisso dei centri di detenzione per migranti della Libia. Un mese in un’unica stanza, insieme ad altre decine di donne come lei: l’unica colpa essersi messe nelle mani dei trafficanti e non aver pagato abbastanza. “Ci davano un pezzo di pane al giorno, acqua sporca. Chi non pagava aveva il destino segnato. Ho visto donne picchiate, violentate o uccise. Anche i loro bambini, in gran parte figli delle violenze subite. O paghi o muori”. Mary a un certo punto è riuscita a fuggire da quell’inferno, a pagare ancora, non solo in denaro, a trovare il contatto giusto che alla fine l’ha portata in Italia. Non ancora al sicuro, perché Mary ha rischiato seriamente di ritrovarsi in strada a fare la prostituta. Solo la sua innocenza e la consapevolezza di non avere più nulla da perdere l’ha messa al riparo. Alla fine, ha bussato alla porta dell’Arsenale e l’ha trovata aperta, con il futuro dei suoi 20 anni tutto da costruire e gli incubi del passato con cui fare i conti ogni giorno. Quante donne come Mary abbiamo accolto, quanta sofferenza abbiamo fasciato!

Come quella di un altro amico senza nome, anche lui arrivato da un Paese lontano, dal Pakistan. Aveva cominciato a vivere all’Arsenale, ma i miei amici si accorsero presto che c’era qualcosa che non andava. Quel ragazzo ogni notte si buttava giù dal letto e cercava di farsi del male. Abbiamo cercato di capire, ma lui parlava solo un dialetto stretto della sua lingua. Impossibile comunicare! Solo grazie ad un altro dei nostri ospiti siamo riusciti a conoscere meglio la sua storia. Il nostro amico senza nome a cinque anni era stato venduto dalla sua famiglia come uno schiavo. Il padrone durante il giorno gli faceva costruire mattoni e di notte lo chiudeva in gabbia. Sì, in gabbia! Come Iqbal Masih, quel ragazzino pakistano di dodici anni diventato il simbolo della lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile e protagonista di un famoso libro. In gabbia! E questo fino a vent’anni, quando il nostro amico era riuscito a scappare e attraverso un viaggio pericolosissimo era arrivato fino a noi. Finalmente a casa! Quando ho conosciuto la sua storia, me lo sono sentito subito come figlio e ho voluto conoscerlo. Ho abbracciato tante persone nella vita, ma quel ragazzo era diverso. Sentivo che ricambiava quell’abbraccio in modo vivo, vero, libero. Ho sentito in modo palpabile la sua fiducia in noi, in me. Dico sempre che quando da noi entra un problema, può uscirne un’opportunità, un’occasione per amare ancora di più, per lottare, per non arrendersi al male. È stato difficilissimo, ma con cure adeguate e specialistiche, lentamente, il nostro amico ha cominciato a camminare da solo, a non avere più paura. Lentamente il letto è diventato un luogo sicuro in cui riposare e oggi il mio amico non vuole più farsi del male. Ci incrociamo spesso per le vie dell’Arsenale, lui con il rosario della sua fede, io con il mio. Ci sorridiamo. Un sorriso complice, perché chi ama davvero Dio, ama l’altro. Ama Dio nell’altro.

Nel mio amico e nello sguardo di Mary oggi vedo la pace: la pace che si rialza grazie a chi non smette di credere, di risvegliare la speranza assopita, di riaccenderla negli occhi e nel cuore.

La pace che esiste nonostante tutto, pronta a mostrarsi sempre nuova.

 

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