Le parole sono pietre. E c’è una Parola che cambia la vita. A noi è successo con la profezia di Isaia. Negli anni ’60 eravamo un piccolo gruppo di giovani, molto inesperti ma con ideali puliti nel cuore. Sognavamo di sconfiggere la fame nel mondo attraverso le opere di giustizia perché vedevamo le disuguaglianze e la sofferenza che piegava tanti e non riuscivamo a girarci dall’altra parte. Era inaccettabile un mondo che spendeva miliardi di dollari per la corsa agli armamenti e condannava milioni di persone all’indigenza, all’analfabetismo, alla mancanza di cure. I nostri progetti a sostegno di migliaia di missionari in giro per il mondo erano la nostra risposta.
Ci fu però una svolta che passò dall’incontro con il sindaco di Firenze Giorgio La Pira. Era un uomo di Dio, un uomo buono, un sognatore pragmatico che in un mondo diviso in blocchi politici vedeva l’unità possibile. Ricordo che ai miei occhi era una persona credibile e decisi di telefonargli per incontrarlo. Lui fu disponibilissimo e dopo qualche giorno mi ricevette a Firenze. Fu La Pira a farmi conoscere la profezia di Isaia, la realtà alla nostra portata di un mondo in cui le armi non sarebbero state più costruite e i popoli non si sarebbero più esercitati negli anni della guerra.
Quelle parole mi entrarono dentro e sentii con certezza che Dio mi avrebbe usato per qualcosa del genere. Lo capii con chiarezza quando il 2 agosto del 1983 entrammo nei ruderi del vecchio arsenale militare di Torino. Lo avevamo individuato come nostra sede, ma anche come simbolo di una riconversione possibile: trasformare un luogo di morte in casa di pace, in luogo di resurrezione vera. Per risistemare tutto sarebbero serviti miliardi e noi non avevamo una lira. Avevamo però un sogno che fu condiviso da milioni di giovani e adulti pronti a restituire tempo, risorse, capacità. L’Arsenale della Pace è nato così ed è diventato nel suo piccolo la realizzazione della profezia di Isaia nella nostra vita e in quella di tanti.
Mi commuove vedere oggi tutto il bene che scorre negli stessi spazi che un tempo producevano armi. E ancora di più mi convinco che per costruire la pace dobbiamo avere il coraggio di non produrle più.
Le armi devono sparire perché uccidono e lo fanno cinque volte:
uccidono nel momento in cui vengono pensate perché distolgono giovani intelligenze dal bene comune;
uccidono perché le risorse usate per gli armamenti potrebbero essere investite per ospedali, scuole, sviluppo;
uccidono perché ammazzano veramente;
uccidono perché alimentano lo spirito di vendetta;
uccidono perché segnano per sempre la vita dei reduci.
Qualcuno potrebbe accusarmi di demagogia, ma non è così. In tutto questo non c’è retorica, ma concretezza estrema. Credo sia questa la via della pace. Con una sfumatura in più. Per essere veri uomini e vere donne di pace dovremmo imparare prima di tutto a disarmarci noi.
Dovremmo scegliere anche noi di non costruire più le armi di dentro: invidie, risentimenti, rigidità, desideri di vendetta. Solo persone disarmate saranno capaci di incontro, di dialogo, di perdono. Solo persone così saranno credibili nel dire basta alla guerra e alle armi che uccidono.