Sr Martinelli, il Sud Sudan per voi missionarie comboniane è una missione del cuore…
È una missione alla quale siamo molto affezionate, una terra sacra per noi, mons. Comboni ha dato la vita per questa terra. Nel suo primo viaggio è arrivato a Gondokoro, e poi nella missione di Santa Croce, tutte zone del sud Sudan. Purtroppo il Sud Sudan ha una storia molto travagliato, anche solo guardando dal 2011 in avanti, dalla sua indipendenza.
Ce la racconti
Io sono arrivata in Sud Sudan nel 2008 e abbiamo vissuto il 2011 come un anno pieno di speranza. Si sanciva l’indipendenza dal Sudan, nasceva il paese più giovane del mondo, erano tutti molto entusiasti. È stato un bel momento anche di festa. Solo che questa luna di miele è durata poco, dal 9 luglio 2021 al dicembre 2013 quando è scoppiata la guerra civile, molto violenta, che ha causato altre centinaia di migliaia di morti e non è ancora finita, nonostante accordi di pace firmati, disattesi, rifirmati…
Cosa succede quando un paese ricade nella violenza?
Succede che tutti cercano di scappare, come è naturale che sia. Nel 2016 lavoravo nell’ospedale di Wao, un ospedale della chiesa cattolica sotto l’egida della conferenza episcopale sud sudanese. Mi sono trovata ad essere l’unico chirurgo rimasto a fronteggiare una guerra pazzesca che imperversava in tutta la regione. Erano scappati tutti: le ONG se n’erano andate, l’ospedale governativo era senza medici e infermieri. Posso testimoniare che quando c’è una guerra tutti impazziscono. Del resto si sa che non si può ragionare con soldati non pagati e non formati, che non sanno cosa sia la misericordia… Ho vissuto il dramma degli sfollati rifugiatisi nel terreno attorno alla cattedrale e alle altre chiese….
Racconti…
Una mattina stavamo andando a messa, uscivamo dalla nostra missione per entrare nel terreno della cattedrale quando all’orizzonte abbiamo visto gruppi di persone che arrivavano da tre direzioni diverse scortati da poliziotti. Ci siamo chieste subito cosa stesse succedendo. Ci si avvicina il poliziotto e ci dice: «Questa gente l’abbiamo portata qui e adesso pensateci voi». I villaggi attorno a Wao erano stati bruciati, la situazione era bruttissima. Nel primo giorno ne arrivarono 5000, nei giorni successivi arrivarono a 20.000, ammassati in maniera disumana, sotto tende, o meglio pezzi di nylon raccolti chissà dove. Ci sono rimasti per 4 anni. Sono subito intervenute le agenzie dell’Onu, ma le condizioni in cui vivevano rimasero molto, molto difficili. Dico questo perché è un po’ emblematico di quello che può capitare.
Cosa produce la guerra?
Con la guerra tutti diventano poveri e tutti cercano rifugio. La gente lascia le loro case, diventano sfollati e dove si rifugiano in sud Sudan? Nei terreni attorno alle chiese, che tradizionalmente sono luoghi dove si accoglie e si trova rifugio prima dell’arrivo delle agenzie umanitarie. Adesso per fortuna si sono fatti passi verso la pace, la gente è ritornata nei loro villaggi, qualcuno ha ritrovato la casa come l’aveva lasciata, qualcuno l’ha trovata bruciata, qualcun altro l’ha trovata, con il terreno, occupata da altra gente. E così si creano nuovi conflitti. La situazione purtroppo, anche per quanto riguarda il governo, rimane molto instabile.
5.000 persone attorno alla cattedrale… e si cambia vita.
Indubbiamente cambi vita, programmi, priorità. Però nella storia del Sud Sudan la chiesa cattolica, i missionari, hanno sempre fatto questo tipo di accoglienza. Lo sentiamo parte della nostra storia, parte del nostro servizio, che è stare vicino alla gente.
Ha sperimentato la Provvidenza in quelle situazioni?
Molte volte, da quella delle ONG quando meno te lo aspetti portandoti i farmaci di cui avevi assoluto bisogno, a quella del Vaticano che chiama per comunicarti lo stanziamento di un fondo per l’ospedale. Ma soprattutto quella della gente dell’ospedale di Wao: infermieri e medici, personale vario. Allo scoppio della guerra dall’ospedale governativo tutti erano scappati, i nostri sono rimasti e l’ospedale si è riempito di feriti da curare.
Perché bisogna esserci come missionari in Sud Sudan?
Perché il paese è distrutto, ci sono diocesi da anni senza vescovi, con pochissimo personale. È tutto per terra, da rimettere in piedi, per questo bisogna esserci. Ci sono diocesi con 10 preti e neppure una religiosa. Noi comboniane siamo 35 sulla carta, ma 5 le ho fuori paese per studio, qualcuna è anziana, ci sarebbe da aprire missioni dappertutto, e invece le chiudiamo. Una volta avevamo missioni con 6-7 suore, adesso se riusciamo ad essere tre per missione ringraziamo il cielo.
Cosa le dicono i pazienti all’ospedale?
Ci ringraziano, perché quasi sempre gli salviamo la vita. Il nostro è un piccolo ospedale, i bisogni sarebbero molto, molto più grandi. Facciamo 1500 parti naturali all’anno e 250 parti cesarei. Quante ore abbiamo impiegato a convincere i capi villaggio o il papà della giovane che il bimbo di sua figlia non sarebbe mai nato naturalmente e se si voleva salvare mamma e bambino dovevamo intervenire. Ci sono malarie bruttissime, quanti bambini abbiamo salvato solo perché sono arrivati in tempo all’ospedale. Alla fine vince la vita, sempre.
Penso siano soddisfazioni…
Tante, tutti i giorni. Anche quella dei bambini che ti aspettano fuori dal cancello che divide la missione dall’ospedale e ti cantano una canzoncina in arabo che hanno appena composto, con il tuo nome, usando dei tamburi improvvisati. Ti fanno sorridere, ti cambia la giornata.
Vedo che ci sta bene in sud Sudan, nonostante tutto.
Si, sono contenta perché sei con la gente, perché riesci a trasmettere qualcosa di Dio a chi ti è vicino, a far capire che quello che importa è voler bene e fare del bene aldilà di tutto quello che succede: violenze, morti… Volendo il bene, facendo del bene le cose possono cambiare.
cosa vuol dire essere comboniana in Sud Sudan?
Abbiamo una eredità pesante: i padri e le suore hanno davvero segnato la storia di questi popoli. Comboni per la chiesa in Sudan è un eroe. Noi abbiamo questa eredità addosso, i vescovi chiedono suore e padri dappertutto e noi oggi dobbiamo fare delle scelte: da alcuni posti dobbiamo venire via, che non vuol dire chiudere, ma lasciare ad altri di continuare, clero e istituti locali, soprattutto i laici. Il grande lavoro svolto dai comboniani e dalle comboniane, seguendo le orme di Comboni, è stato quello di preparare maestri, catechisti, contadini, infermieri, ostetriche, mamme… sono loro che adesso portano avanti la realtà del paese e della chiesa nei villaggi. Noi abbiamo la responsabilità di iniziare delle cose, portarle avanti per un certo periodo sempre meno da protagonisti, sempre più come compagne di viaggio, mettendo fin dall’inizio questo aspetto come fondamentale: siamo qui di passaggio, facendo in modo che quello che iniziamo venga portato avanti e crei qualcosa di bello, una trasformazione nel posto dove siamo passati. Questo vuol dire essere comboniana. In sud Sudan e in qualsiasi parte del mondo.