La questione delle diseguaglianze resta quanto mai attuale nel convulso periodo storico che abbiamo vissuto dal 2008 a questa parte: prima il crack dei subprime negli Stati Uniti, poi il default del debito sovrano in Europa (2011-2013), infine l’emergenza sanitaria provocata dal Coronavirus, con le sue severe ricadute economiche e sociali. In poco più di un decennio gli assetti del capitalismo globale, e l’ideologia che li sorregge (il neoliberismo), sono stati destabilizzati da tre eventi di portata epocale, che hanno reso alquanto illusorio l’assunto secondo il quale «l’alta marea solleva tutte le barche». La ricchezza non gocciola in basso dai vertici alla base della piramide sociale (effetto trickle-down), come hanno sostenuto i fautori delle sorti progressive del libero mercato. Se c’è un insegnamento da trarre da questi anni tumultuosi è che in assenza di politiche redistributive le distanze tra ricchi e poveri sono destinate ad accrescersi, non solo nei paesi cosiddetti avanzati, ma anche nelle nazioni emergenti o in via di modernizzazione. La pandemia ha messo a nudo le contraddizioni di un modello di sviluppo che non regge più: risulta arduo coniugare crescita e coesione sociale, la democrazia non può che soffrirne.
Il problema non è tuttavia solo quello della disparità quasi abissale fra i compensi dei top manager/azionisti delle corporation e i salari della massa dei lavoratori dei ceti medi e popolari. Accanto alla forbice di reddito, bisogna anche tener presente l’iniqua ripartizione nella dotazione di risorse con cui ogni individuo può realizzare le sue legittime aspirazioni e godere di una soglia accettabile di benessere psico-fisico. Da questo punto di vista la salute è un bene di primaria importanza, soprattutto in un paese come l’Italia dove, attraverso il servizio sanitario nazionale (SSN), si dovrebbero assicurare livelli essenziali di assistenza (LEA) a tutti i cittadini, da Aosta a Ragusa. Questo traguardo appare alquanto lontano, nonostante siano trascorsi più di quarant’anni dall’istituzione del SSN (legge n. 833 del 1978). Una ricerca promossa dalle Acli e realizzata di recente dall’Iref (Viaggi con la speranza. Storie di famiglie colpite dalla malattia di un figlio) si sofferma sui divari esistenti in Italia nella cura della salute, analizzando da vicino il fenomeno dell’emigrazione sanitaria. Sono poco meno di un milione (937mila) le persone che nel 2017 si sono spostate da una regione all’altra del paese per accedere a prestazioni mediche essenziali per la loro integrità fisica. Questo flusso non è omogeneo: a partire sono soprattutto i cittadini residenti nel Sud e delle Isole, alla volta di strutture sanitarie di eccellenza presenti nel Centro e nel Nord. Questa forma di mobilità ha una conseguenza non trascurabile sulle casse dei sistemi sanitari regionali (SSR), in quanto le spese di degenza nella regione di destinazione vengono sostenute dalla regione di invio. Nel 2018 Campania, Calabria, Sicilia e Puglia hanno registrato passivi fra circa 350 e 210 milioni di euro per i propri pazienti che hanno affrontato un viaggio per andare a farsi curare in ospedali ubicati prevalentemente in Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Veneto, che non a caso hanno raccolto nello stesso periodo saldi positivi fra circa 770 e 139 milioni di euro per l’afflusso di pazienti non residenti. Tali squilibri territoriali incidono notevolmente sulla tenuta dei SSR, i quali negli scorsi anni sono stati costretti a varare onerosi piani di rientro per far fronte ai debiti accumulati nella gestione dei servizi sanitari. Non sfugge infatti l’evidenza per cui le regioni che attraggono da fuori maggiori quote di cittadini tendono ad accumulare un cospicuo “tesoretto” che possono reinvestire nel potenziamento dei servizi sanitari, mentre le regioni che perdono utenti rischiano presto o tardi di trovarsi in una strettoia finanziaria, che può ulteriormente pregiudicare la qualità e il livello delle prestazioni sanitarie. Ciò non può che destare allarme perché sono proprio l’assenza di presidi ospedalieri (o il loro malfunzionamento) a spingere le famiglie ad emigrare per tutelare la salute di un proprio caro, come si scopre dalle storie raccolte nella ricerca. Si tratta di genitori che hanno percorso centinaia di chilometri per fare ricoverare i propri figli presso l’Ospedale Bambino Gesù di Roma, uno dei poli pediatrici all’avanguardia nel trattamento di patologie acute che possono colpire i bambini. Dai racconti degli intervistati si capisce che avrebbero preferito che i propri figli fossero curati vicino casa qualora ci fossero state strutture adeguate, risparmiandosi un’epopea di mesi o anni in un’altra città, con strascichi di non poco conto sul vissuto familiare: lasciare i fratelli ai nonni per stare al capezzale del piccolo malato, perdere il lavoro, sostenere le spese delle trasferte per riunire nel luogo di degenza i congiunti o per le visite di controllo, il disagio e il disorientamento che colpisce tutti i membri del nucleo per una situazione drammatica che si protrae nel tempo, la difficoltà di riadattarsi alla vita di tutti i giorni alla fine di un percorso terapeutico tormentato che si conclude con la guarigione o, non di rado, con il decesso del minore. Per lenire la sofferenza di queste famiglie non basta l’umanità e la professionalità dei medici e del personale paramedico della struttura sanitaria d’accoglienza; o il pur fondamentale contributo delle associazioni dei malati, che offrono un alloggio gratuito, compagnia e preziosi servizi di sostegno alle persone che si trovano a vivere questo dramma. Ci vorrebbero interventi politici mirati che accompagnino i genitori e i bambini durante il calvario che li colpisce, sia nel luogo di cura che in quello di residenza, dando una risposta concreta ai loro molteplici bisogni (economici, psicologici, relazionali, educativi, di ricollocazione lavorativa). È per tale ragione che l’emigrazione sanitaria non sembra l’espressione del principio di libertà di scelta del cittadino utente di fronte al SSN, sancito dal decreto legislativo 512/92, quanto piuttosto la spia di una fragilità sociale di cui le istituzioni (nazionali e locali) non si fanno carico a sufficienza.