Non c’è parola più bella di “profezia”. Nessuna ricetta facile, nessuna utopia, ma la concretezza buona di chi continua a credere negli ideali e a testimoniare con la vita che quel che non è stato, finalmente può essere. Quando ero giovane, nei primi anni di Sermig, uno dei miei maestri fu il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira. In piena guerra fredda, in un mondo diviso in due blocchi, lui era instancabile. A costo di non essere compreso fino in fondo, cercava di unire, mai di dividere, di cercare strade di dialogo, di favorire occasioni di incontro. Fu lui a farci scoprire la profezia di pace di Isaia, le parole bibliche che annunciano un tempo in cui le armi non saranno più costruite e i popoli non si eserciteranno più nell’arte della guerra. All’epoca ero molto giovane e non avevo ancora tutto chiaro, ma nel cuore sentivo che forse Dio ci avrebbe usato per fare qualcosa del genere. In fondo, l’Arsenale della Pace, la realtà di una vecchia fabbrica di morte trasformata in casa di vita, è nata proprio da quell’incontro illuminato. La Pira ci ha aiutato a capire che un grande obiettivo non si realizza mai da solo, ma con impegno, con gradualità, con umanità. La pace è così: non è uno slogan da gridare nelle piazze o nei cortei. La pace, come la speranza e l’amore, è un fatto concreto, è una scelta di vita, è l’impegno radicale a lottare contro ogni ingiustizia.
Un mondo in pace è capace di accogliere ogni uomo e donna di qualsiasi origine e religione perché tutti hanno diritto a cibo, casa, lavoro, cure, dignità, istruzione. È un mondo in cui giovani e adulti sono pronti a fare della propria onestà la chiave per costruire il bene comune. È comprendere che il bene che posso fare io non lo può fare nessun altro, perché è la parte di bene che tocca a me, è la mia responsabilità. Questa mentalità è diventata la nostra bussola e, lentamente ma decisamente, ha abbracciato milioni di persone che hanno messo a disposizione tempo, denaro, professionalità per asciugare una lacrima, sostenere chi è debole, formare i più giovani senza chiedere nulla in cambio.
La forza di un ideale tuttavia può essere dirompente solo se avvolta continuamente di pazienza, di delicatezza: abbiamo bisogno di riscoprire ogni giorno le nostre motivazioni, di dire il nostro sì. A quel punto diventeremo indomabili, sentiremo l’urgenza di non tacere di fronte a migliaia e migliaia di guerre nella storia e a centinaia di milioni di morti. A non stancarci nel dire che le armi non devono essere più costruite perché uccidono e lo fanno tante volte, quando sottraggono investimenti allo sviluppo, quando lasciano sul campo morti e feriti, quando preparano la vendetta, quando devastano per sempre l’equilibrio dei reduci.
Credo che le tragedie della storia e la complessità geopolitica del mondo di oggi ci dicano che non è più tempo di aspettare. L’umanità può rinascere! Ognuno di noi può farlo, vivendo – se è credente – la santità come forma più alta del proprio essere al mondo. Da non credente, l’impegno continuo a cambiare, a convertirsi per convertire il corso negativo della storia. Tutto il resto non conta.
Se questa mentalità si farà strada nel cuore di tanti, il mondo potrà cambiare davvero. È la speranza che nasce anche di fronte alla tragedia più nera, la speranza che di fronte alla follia della guerra ci porta a dire sempre: “Pace, cosa posso fare per te?”
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