Le parole e i fatti hanno un peso, purtroppo anche in negativo. Credo che uno dei terreni più delicati in questo senso riguardi chi si sente a torto o a ragione giudicato.
Perché la cosa peggiore che può capitare a un uomo è dare un giudizio definitivo su qualsiasi cosa, su qualsiasi persona. Una volta ho usato una espressione forte che sento di confermare: un giudizio è come una condanna a morte, non riconosce la possibilità di cambiare, rinnega la resurrezione, dimentica che chi ha sbagliato può diventare maestro, una bellezza per Dio unica e irripetibile.
Quante volte noi condanniamo a morte! Quante volte impediamo a una persona che sbaglia di tornare a nuova vita! Gli neghiamo la possibilità di redimersi, semplicemente di scusarsi e di ammettere le proprie colpe. La condanna a morte che entra nella testa di tante persone è un giudizio inappellabile. Un moralismo che è il massimo del paganesimo perché Gesù era l’opposto. Lui è il massimo della misericordia, la misericordia fatta persona, fatta parola. Quando gli scribi e i farisei portarono a Gesù la donna adultera, si aspettavano una posizione netta, una condanna senza appello. Lo misero alle strette, ma Gesù continuava a scrivere per terra. Secondo me, si chiedeva se dare una risposta seria o ironica. Il punto era far capire che la misericordia deve essere sempre più grande di ogni evidenza. Dalla bocca di Gesù uscirono quelle parole meravigliose: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. Una risposta ironica, ma di una serietà assoluta.
Eppure, nel nostro mondo continuiamo a condannare. E sia chiaro, non è necessario uccidere per essere condannati a morte. Mi viene in mente la storia di una donna che scoprì di avere un figlio terrorista. Erano gli anni Settanta, le brigate rosse avevano scelto la strada della clandestinità. Tanti giovani insospettabili scelsero la cosiddetta lotta armata. Padri e madri da un giorno all’altro vedevano sparire i figli. Mai avrebbero immaginato la verità. In tanti mi venivano a parlare. “Ernesto, dove sarà andato mio figlio?”. Io soffrivo con loro. Capitava poi che la verità piombasse come un macigno nella vita tranquilla di queste persone. Ricordo una povera mamma, famiglia bene che viveva sulla collina torinese. Una mattina, ascoltando la radio, sentì di un’operazione antiterrorismo con diversi arresti. In prigione era finito anche il figlio. Momenti di disperazione. Quella donna non sapeva a chi rivolgersi. Il gesto fu istintivo: si preparò in fretta, prese la macchina e, sconvolta, andò in chiesa per avere conforto. Fu una doccia fredda. C’era la messa e il celebrante dedicò tutta l’omelia a quella vicenda. “Che vergogna, un terrorista tra noi! È uno scandalo per il nostro paese!”. Quella donna svenne davanti a tutti. Non mise più piede in chiesa. Qualche anno dopo ne parlammo insieme all’Arsenale e, forse, è proprio grazie a noi che riuscì a tornare riconciliata nella storia di Dio. Nessuno aveva giudicato la sua storia.
Ma come si fa a non giudicare? Si comincia da sé stessi, imparando a usare misericordia. La fatica più grande per ogni uomo è cadere e ricominciare. Le spine nel fianco ci saranno sempre, ma possono diventare una grazia per capire chi non ce la fa, per mettersi nei panni degli altri. Non dobbiamo far passare il male per il bene. Non cresceremmo. Ma posso dire che le persone più belle che ho conosciuto hanno fatto tutte una fatica dell’accidenti. Hanno accettato di contrastare in qualche modo il proprio io, senza però condannarsi. Ho incontrato ragazze meravigliose desiderose di diventare madri che si sono offerte per un ideale più grande. Hanno fatto fatica, continuano a farla, ma la fatica è anche il destino serio dell’uomo che accetta la serietà. Nella vita contano solo la direzione e le motivazioni che ti dai, accettando di dire dei sì e dei no, due piccole parole, ma fondamentali.