All’Arsenale della Pace di Torino c’è un luogo particolare: una piccola chiesa progettata da fra Costantino Ruggeri, un artista e un uomo di Dio che sapeva vedere lontano. A tal punto da immaginare uno spazio di preghiera lì dove c’erano solo rovine, bellezza al posto delle armi. Fu lui a donarci la croce dei dolori del mondo, semplicissima, creata con gli assi della vecchia ferrovia, simboli che parlano: i chiodi conficcati nel legno, il colore rosso della passione, ma anche il bianco della speranza e della luce della risurrezione.
È una croce che parla contemporaneamente di una morte atroce e di una vita senza fine: la sintesi perfetta del mistero della Pasqua e anche della vita.
All’Arsenale lo abbiamo capito sulla nostra pelle, tenendo la porta aperta per accogliere il mondo così com’è. Nella croce della nostra chiesa è come se fossero inchiodate le storie che abbiamo incrociato. Penso a quel bambino di pochi mesi ucciso barbaramente, che mi ritrovai davanti dopo il genocidio del Rwanda. Ai giovani uccisi dalla droga, dal nonsenso, da dipendenze infami. Agli uomini e donne di strada morti in solitudine, nell’indifferenza. Alle persone come noi, condannate a vivere una vita indegna a causa della fame, della mancanza di cure, dell’ingiustizia. Alle vittime innocenti di tutte le guerre della storia, schiacciate dalla violenza cieca, dalla corsa agli armamenti, dall’avidità di chi si arricchisce sulla morte.
Nella croce vedo davvero tutti i dolori del mondo, ma al tempo stesso contemplo anche tutte le risurrezioni del mondo. Vedo la speranza di chi non si risparmia, l’esempio di chi ha dato la vita per amore, per asciugare una lacrima, per combattere contro un’ingiustizia, per risollevare chi è caduto. Vedo l’esempio di chi ha cambiato vita, di chi non è rimasto prigioniero dei propri errori, di chi non si è fatto bloccare dal dolore, dalla fatica, dalla disperazione. Vedo la forza umile di chi con la propria debolezza ha indicato strade e fatti nuovi, magari nel silenzio, senza riflettori. Cambiando così, nella semplicità, il pezzo di mondo in cui era stato seminato.
La gioia della Pasqua è questa, è un annuncio che illumina di speranza tutto il bene e tutto il male del mondo. Non a parole, ma nella concretezza estrema. Non con una bacchetta magica, ma con il contributo di ogni uomo e di ogni donna di buona volontà. Perché è vero, noi abbiamo bisogno di Dio, ma anche Lui ha bisogno di noi per portare nel mondo la pace. Possiamo farlo se accettiamo da oggi di vivere da risorti, anche se ci sentiamo indegni, inadeguati, incapaci. Possiamo farlo se desideriamo con tutto noi stessi di convertirci, di cambiare vita, guardando la realtà che ci circonda con amore, con compassione. Facendo della commozione non un semplice sentimento, ma una direzione da seguire per cambiare le cose.
Qualche tempo fa, ho riassunto in alcune righe il mistero di fede che stiamo vivendo in questi giorni verso la Pentecoste:
“Mai cieli e terra
sono stati così uniti
come quando Gesù è stato deriso, insultato, ucciso.
Con lui la Madonna
che lo incoraggiava con la sua presenza.
C’era anche il Padre
con le sue lacrime senza fine.
Quando Gesù è stato deposto
nella tomba Dio lo ha vegliato,
era lì vicino e dopo tre giorni
lo ha abbracciato per dargli vita.
È questa la Risurrezione:
l’abbraccio di Dio”.
La speranza in un abbraccio!
Diventiamo veri testimoni di pace quando proviamo a comunicarlo ai feriti e agli ultimi della Terra.