La metafora della forbice da chiudere sottintende che la condizione di chi si trova in svantaggio (economico, sociale, sanitario, educativo, alimentare) venga avvicinata a quella dei chi sta meglio: ai benestanti, a chi vive in società relativamente democratiche, sicure, giuste. Ma nel caso dell’Amazzonia, e di altre situazioni simili nel mondo, dove allo svantaggio sociale di parte della popolazione si aggiunge la questione ambientale, viene da chiedersi se siano le condizioni degli “indigeni” a dover essere avvicinate a quelle degli altri, o se siano piuttosto gli altri a dover muovere la loro metà della forbice verso lo stile di vita degli indigeni.
La questione ha trovato argomenti, spunti e risposte nel Sinodo Amazzonico di ottobre: negli incontri dei vescovi impegnati a cercare “Nuovi Cammini per la Chiesa e per una Ecologia Integrale” come chiesto da papa Francesco; ma soprattutto negli eventi a margine, organizzati nel programma di incontri “Amazzonia Casa Comune”. Al di là dei copricapi di piume e delle decorazioni sul viso, le parole dei leader dei popoli amazzonici arrivati a Roma, per chi come noi ha avuto modo di incontrarli e ascoltarli, hanno svelato punti di vista alternativi sulla questione ambientale che meritano qualche riflessione.
Com’è noto il significato letterale della parola “indigeno” è semplicemente “originario del luogo in cui vive”. Dunque, dal punto di vista semantico, gli indios incontrati nelle tre settimane del Sinodo non sono meno indigeni di chi scrive (nato e cresciuto nella capitale), di un medico milanese, un operaio giapponese o un ingegnere londinese. Ma mentre per “noi”, vissuti nella civiltà urbanizzata del XX e XXI secolo, l’appartenenza culturale a un luogo geografico è quasi esclusivamente rappresentata da artifici umani (letteratura, lingua, tradizioni, relazioni, gastronomia, arti), per un indigeno amazzonico (o africano, o asiatico, o australiano…) le “radici” sono fatte letteralmente di legno, e terra, e acqua, e foglie, e animali.
La Natura, per gran parte dell’umanità è, nel migliore dei casi, un luogo da ammirare e conservare come un gioiello prezioso: bello, fragile e sempre più raro. In passato era vista come un “nulla” da riempire, o da sfruttare il più possibile per scopi umani. Le cose sono migliorate: oggi abbattere una foresta per costruire strade, edifici, miniere e campi agricoli, per lo meno ingenera nella maggioranza un certo rammarico, e in casi estremi un moto di protesta. Ma quanto spesso, nei nostri racconti di vacanzieri, viaggiatori o escursionisti, ancora ricorrono frasi come “mi sono perso nel nulla”, “ho goduto del silenzio di un luogo lontano da tutto”, “non c’era anima viva per chilometri”? L’idea che un bosco, una vallata o anche un deserto, siano luoghi vivi e bastino a sé stessi non è pensiero comune; non quanto quello che un paesaggio sia “il nulla” se non è caratterizzato da un’attività umana stabile e ben visibile. Questa convinzione è radicata profondamente nella nostra mentalità e su di essa fa presa chi consuma la Natura (foreste, suoli, acque) in nome del progresso, dello sviluppo, della produzione di materie prime e della necessità di spazi per l’agricoltura.
C’è poi la questione della “conservazione” della Natura. Fino ad oggi potevamo pensare che “incontaminata” (sottinteso: dalla presenza umana) fosse un aggettivo positivo: che l’assenza, o il divieto della presenza degli uomini potesse “salvare” gli ultimi paradisi naturali rimasti. Un “paradiso” insomma sarebbe tale senza l’Uomo… un’ironica contraddizione se ci riflettiamo. Ma abbiamo appreso, anche grazie a queste settimane di Sinodo, che non si può escludere la presenza umana dove questa è da sempre parte dell’ecosistema.
La Natura, nella percezione comune, è ormai solo una vittima delle nostre colpe, da scontare preservandola, dove ancora possibile, come un santuario. Non è più un luogo fatto per noi, ma piuttosto da difendere: da noi stessi, dalle nostre mire, dalla nostra invadenza e dai nostri errori. Eppure parte di quella Natura, è ancora abitata da uomini: uomini moderni, del XXI secolo, per i quali essa è veramente una “casa comune”. Popoli che da millenni sono in equilibrio con quel mondo di alberi giganteschi, fiumi grandi come mari, climi altrove insopportabili e animali selvatici, liberi, numerosi e spesso letali. Per migliaia di anni questi popoli hanno modellato le loro tradizioni, economie, arti, letterature, lingue e artefatti alla Natura, preservandola come l’avevano trovata i primi arrivati, loro antenati.
Per un parigino, un californiano o un pechinese suona assurda, o tutt’al più retorica, l’affermazione “le colline sono i miei genitori, il mio dio”; ma la cosa è perfettamente logica per un uomo Baiga dell’India (guarda*: https://youtu.be/jA9QwuAbSYw) che “venera il gallo selvatico come il serpente”. Anche noi del resto veneriamo e rendiamo onori agli eroi della Storia, alle nostre guide spirituali e ai monumenti di pietra che ci ricordano chi siamo. Ma per noi parole come “territorio” e “patria” significano strade, piazze, monumenti, al massimo fattorie, campi e parchi dove andare a far vacanze. Per i popoli “indigeni” la Natura è la casa, il quartiere e la città; la foresta è il supermercato, la farmacia, l’emporio, la scuola, il rifugio, la chiesa e il cimitero. “Il nostro corpo è il nostro territorio. Il nostro ventre è il nostro tempio. Le nostre vene sono i nostri fiumi” – dice Hamangaì del popolo Pataxò (guarda: https://youtu.be/c4uFrpDaW7Q), che ovviamente trae la conseguenza: “Perché desiderare il denaro se ciò che ci sostiene è la Madre Terra, la Madre Natura?”
Quando parliamo di Amazzonia o di Borneo, di savana o di foresta pluviale africana, come di ecosistemi da salvare, dobbiamo essere consapevoli che in quegli ambienti sopravvivono culture umane già perfettamente “sviluppate”: milioni di persone e centinaia di popoli, che non possono prescindere da quegli stessi ecosistemi. “Per il governo ‘sviluppo della terra’ significa profitto, per gli Orang Asli significa distruzione della nostra identità e delle nostre risorse – dice Tijah, attivista di questo popolo originario della Malesia (guarda*: https://youtu.be/QX7RWV16g4c) – Se al governo importasse degli Orang Asli riconoscerebbe lo status delle nostre terre consuetudinarie invece di avviare progetti di sviluppo”. Chi mai abbatterebbe la Torre di Pisa per far passare una strada o far spazio a una piantagione di soia? Chi proporrebbe di demolire San Pietro per estrarre metalli dal sottosuolo? Chi mai evacuerebbe i fiorentini per far diventare Firenze un unico grande museo e sviluppare il turismo? Agricoltura, miniere e conservazione, riuniti sotto la rassicurante definizione di “sviluppo”, sono i motivi principali per cui i popoli originari sono ovunque perseguitati, espropriati e scacciati dalle loro terre ancestrali.
È anche limitativo vedere nell’Amazzonia, e nelle altre aree naturali incontaminate del pianeta, soltanto delle riserve di specie animali e vegetali, dei generatori di ossigeno e degli aspiratori di CO2. “Recintarle” con confini, divieti e leggi al solo scopo di conservarle dal punto di vista biologico, per quanto utile a fermare il disastro ambientale, non può bastare. Quelle terre devono essere lasciate o restituite ai popoli che ne sono parte integrante (o meglio “integrale”) come la palma e il lemure, il giaguaro e la mangrovia. “Quando vengono e fanno la loro ‘conservazione’ e ci vedono nella foresta ci lasciano stare nella foresta? No, ci picchiano – denuncia Dede, un uomo del popolo Baka, parlando della creazione dell’area protetta Messok Dja in Congo (guarda*: https://youtu.be/yxWBZjfvqyI) – Non dovrebbero chiudere la foresta. Dovrebbero lasciare questa terra per sempre, così che possiamo restare a viverci noi, per sempre”.
Non basta rispettare e salvare la Natura, occorre riscoprirla: tornare a capirla. Nelle società “sviluppate” forse solo i naturalisti, gli agronomi, i cacciatori e i contadini hanno mantenuto un contatto culturale con la Natura, con i cicli stagionali, le piante e gli animali; ma ognuno limitatamente al proprio campo di competenze e, generalmente, senza sentirsene parte integrale. Dei popoli “indigeni” che vivono nella Natura, ogni uomo, donna e bambino conosce e comprende tutto ciò che cresce e vive intorno a lui.
L’Uomo è ancora una delle specie della foresta. Per chi si occupa di tutela dell’ambiente, questa è forse la lezione più sorprendente e originale del Sinodo Amazzonico.
*Le testimonianze dei popoli indigeni riportate nei link sono parte del progetto #TribalVoice di Survival International (www.survival.it)