Il 18 aprile si ricorda un tragico evento: il più grande naufragio della storia recente nel mar Mediterraneo, tra Italia e Libia, nel 2015, con circa 700 morti, forse mille secondo i testimoni. Una ricorrenza da non dimenticare.
Ci sono al mondo circa 280 milioni di persone che degli effetti della situazione che stiamo vivendo sperimentano una terribile diseguaglianza pagando un prezzo particolarmente alto: si tratta dei migranti, il cui numero è continuamente cresciuto in questi anni, erano 150 milioni nel 2000. Anche il numero dei rifugiati è in costante aumento periodo, ormai sono quasi 80 milioni. Così sono definiti coloro che fuggono o sono stati espulsi dal suo proprio paese a causa di discriminazioni politiche, religiose, etniche, di nazionalità, o perché appartenenti ad una categoria sociale di persone perseguitate. Tutte queste persone, in vario modo fuggono dalla povertà, dalla guerra o dagli effetti del cambiamento climatico o, semplicemente, sono alla ricerca di una vita migliore o, più spesso, sono spinti da un insieme di tutti questi elementi; e per questo intraprendono una strada che spesso presenta rischi altissimi. Il 18 aprile ci ricorda proprio questo.
Con le loro rimesse – passate da 126 a 689 miliardi di USD negli ultimi 20 anni – contribuiscono alla vita delle famiglie e delle comunità rimaste nel paese di origine e con il loro lavoro concorrono al benessere dei paesi in cui si trovano, compreso quello delle nostre famiglie. In Italia si calcola che circa il 9% del PIL sia dovuto ai lavoratori stranieri. Forse proprio la diffusione della pandemia ha portato in Italia ad una maggiore consapevolezza circa l’importanza del contributo dei migranti nell’economia, e ha stimolato iniziative legislative del tutto impensabili fino a pochi mesi fa, come la regolarizzazione dei lavoratori migranti senza documenti in alcuni settori. Le migrazioni hanno effetti profondi su molti aspetti della vita sociale, sia nei paesi di origine, che vedono in molti casi la partenza delle loro forze migliori e più dinamiche; sia in quelli di transito e destinazione, dove si mettono in modo dei processi di trasformazione che devono essere compresi e governati, con scelte che si presentano sempre più come complesse e dilemmatiche.
La mobilità umana ha molti volti diversi. Un fenomeno spesso poco considerato è quello dei cosiddetti sfollati interni: anch’essi in aumento tra il 2000 e il 2020, da 14 a 26 milioni. Così una persona in fuga da una regione dove l’agricoltura è diventata impossibile a causa della desertificazione o delle continue alluvioni può essere facilmente definita ‘migrante economico’, e respinto alla frontiera.
Vi sono poi i ‘rifugiati ambientali’, non riconosciuti dal diritto internazionale. Sono però proprio coloro che stanno pagando il prezzo più alto del cambiamento climatico, costretti a fuggire da fenomeni che nei prossimi anni aumenteranno sempre di più. I migranti rappresentano un caso di scuola di ‘capro espiatorio’, un’ingiustizia doppia.
Già prima della pandemia, venivano spesso loro attribuiti tutti i mali della società italiana: la violenza, la crisi economica, la corruzione, le malattie, ecc. Questo non vuol dire, ovviamente, che non occorra la massima attenzione nel tracciamento di ogni movimento; anche se è difficile negare che questo compito sia reso più complicato dall’aver tenuto nell’illegalità centinaia di migliaia di persone. Ancora una volta, riconoscere diritti non è certo ‘aprire le dighe’, ma significa costruire una comunità di corresponsabili, anche sul controllo della diffusione della pandemia.
Il COVID19 è destinato ad incidere in modo importante sui fenomeni globali di mobilità umana, ad esempio, favorendo fenomeni migratori a più breve raggio. La chiusura dei confini e il blocco alla mobilità è stata la reazione più diffusa per contrastare la pandemia, e questo certamente ha reso più difficili lunghi percorsi migratori. La chiusura dei confini rappresenta, inoltre, un problema estremamente serio in moltissime aree come l’Africa, dove si vive di commerci a cavallo di confini, spesso frettolosamente disegnati in epoca coloniale e dove il quotidiano movimento transfrontaliero rappresenta la risorsa essenziale per la sopravvivenza. La pandemia mette in rilievo anche fenomeni relativamente nuovi: i migranti ‘bloccati’ – stranded migrants – che costituiscono ormai una categoria di analisi a sé nel dibattito sull’argomento: coloro che hanno perso il lavoro nel paese di approdo e che non sono riusciti a ritornare nel paese di origine; oppure coloro che sono stati intrappolati nel corso del passaggio o rimandati indietro frettolosamente per ragioni legate, più o meno strumentalmente, alla diffusione del COVID 19.
Tuttavia, è nei paesi più fragili del Pianeta che le condizioni dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati finiscono per essere più difficili. Come nei grandi campi come quello di Cox Bazar, in Bangladesh, dove sono ospitati, o per meglio dire tollerati, centinaia di migliaia di sfollati Rohingya in fuga dal Myanmar. Per la maggior parte di loro sarà davvero difficile ritornare. Come il Sahel, dove il Burkina Faso, un tempo simbolo di stabilità e libertà, è diventato l’epicentro di un drammatico conflitto che ha causato un milione di sfollati. Come l’area Balcanica, dove decine di migliaia di migranti in transito lungo la Rotta Balcanica sono stati rinchiusi per mesi all’interno dei campi profughi della regione, già di per sé fatiscenti, ma le cui condizioni si sono ancora aggravate: sovraffollati, senza servizi adeguati, in condizioni igieniche pessime, con gravi rischi per la salute psichica, comprese famiglie con bambini e i minori non accompagnati.
In tutti questi casi il rischio della malattia, le difficoltà causate dal lockdown per l’approvvigionamento di beni essenziali, la difficoltà di riavviare un minimo livello di attività produttive sono state particolarmente severe per le popolazioni migranti o rifugiate. È senz’altro necessario dare alle persone la libertà di rimanere nella loro terra di origine; ma in moltissimi casi questa opzione semplicemente non c’è; e non è realistico arginare con i muri il movimento di circa 300 milioni di persone in tutto il Pianeta.
L’invito di Papa Francesco, anche in un tempo difficile come quello che stiamo vivendo, è quello di alzare lo sguardo alla sofferenza di molti e in particolare proprio di coloro che lasciano la loro terra di origine: “non è questo il tempo della dimenticanza. La crisi che stiamo affrontando non ci faccia dimenticare tante altre emergenze che portano con sé i patimenti di molte persone”. Le migrazioni sono un fenomeno fisiologico del mondo in cui viviamo, che deve essere governato e accompagnato. Dobbiamo essere consapevoli delle immani difficoltà affrontate da chi decide di fare questa scelta, così come della necessità di aiutare le comunità di tutti i territori di transito e destinazione a mostrare un volto di umanità e di fraternità.
Quello che è difficile in tempi normali lo è diventato ancora di più nel tempo della pandemia. Forse questo periodo ci ha dato la possibilità di rimettere in ordine le priorità di cambiamento e riconsiderare quello che occorre fare per rendere il nostro Pianeta un mondo più accogliente e meno diseguale.
Ce lo ricordi almeno la data del 18 aprile.