Juana Toledo è una rappresentante del Consiglio delle comunità Maya della regione di Huehuetenango, in Guatemala. Dal 24 al 28 ottobre era a Ginevra, lontana migliaia di chilometri dalla sua terra e dai quotidiani impegni familiari e comunitari come leader indigena. Era lì, presso la sede delle Nazioni Unite, per prendere parte ad un apparentemente ordinario ciclo di incontri tra diplomatici: l’ottava sessione annuale del Gruppo di lavoro intergovernativo sulle società transnazionali ed altre imprese commerciali in relazione ai diritti umani. Dal 2015, in conseguenza di una risoluzione[1] del Consiglio ONU per i diritti umani, i rappresentanti degli Stati che compongono il Gruppo di lavoro si riuniscono ogni anno per una settimana di negoziati su un nuovo strumento giuridicamente vincolante a livello internazionale. La finalità è istituire un trattato in grado di disciplinare la responsabilità delle imprese, in particolare quelle a carattere transnazionale, in materia di diritti umani.

A dispetto della formula burocratica, al centro delle negoziazioni del Gruppo di lavoro vi è un tema decisivo, anzi letteralmente vitale, per le innumerevoli persone e comunità che in tutto il mondo, e in particolare nei Paesi impoveriti, sono oggetto di violazioni dei diritti umani, spesso gravi, direttamente o indirettamente collegate all’azione delle imprese multinazionali. E’ per questo che alle sessioni del Gruppo di lavoro intergovernativo (i cui membri sono gli Stati) partecipano anche numerosi delegati della società civile che seguono da vicino lo svolgersi delle negoziazioni e, dialogando con i negoziatori e intervenendo direttamente durante i lavori, presentano e cercano di far avanzare le istanze di chi è esposto in prima persona alla violenza e all’arbitrio di queste violazioni.

Juana era all’ONU a Ginevra insieme a decine di difensori dei diritti umani ed attivisti arrivati da tutti i continenti, in rappresentanza di un’umanità sofferente e ignorata ma che continua a lottare in maniera nonviolenta per i propri diritti e la propria terra. Forti di un’esperienza spesso drammatica e di un’incredibile competenza hanno scelto di dire basta all’impunità di quelle imprese multinazionali che, con azioni spregiudicate, sottraggono futuro e dignità a milioni di persone. Partecipando in prima linea a questo processo negoziale si oppongono alla sproporzione di mezzi e potere che troppo spesso genera sfruttamento ed abusi di ogni tipo, a cui un trattato legalmente vincolante potrebbe porre un primo argine introducendo finalmente un quadro normativo comune a livello internazionale.

Prendendo in prestito le parole di Juana: “la ragione per cui siamo qui è sostenere e proteggere l’azione di chi difende i diritti umani e l’ambiente da chi distrugge, devasta e si accanisce contro le nostre comunità e il nostro pianeta“. Juana ha ricordato al Gruppo di lavoro il sacrificio delle donne e degli uomini dei popoli indigeni vittime di violenza, persecuzioni e omicidi per aver alzato la voce contro gli abusi impuniti delle grandi imprese (come ad esempio società minerarie o idroelettriche) ai danni delle loro terre e dei loro diritti.

Infrangere l’impunità significa anche rendere piena giustizia alle vittime e rimediare ai danni causati da queste azioni. E’ quanto ha invocato Marina Oliveira, attivista brasiliana, rivolgendosi ai delegati del Gruppo di lavoro con la sua testimonianza del terribile disastro industriale e ambientale che 3 anni fa ha colpito la cittadina di Brumadinho, in cui lei stessa è stata direttamente coinvolta. Nel 2019, in questa località del Brasile 270 persone furono uccise a causa del collasso di una diga di contenimento dei rifiuti dell’estrazione e della lavorazione dei minerali di proprietà della multinazionale mineraria Vale, certificata come sicura soltanto 4 mesi prima dalla filiale locale della società tedesca TÜV SÜD.

Noi, comunità danneggiate da grandi multinazionali, abbiamo fretta perché stiamo morendo. Noi non vogliamo morire. Abbiamo bisogno che la comunità internazionale ritenga responsabili coloro che stanno contaminando la nostra acqua, la nostra aria e il nostro suolo e stanno togliendo la vita ai nostri fratelli e sorelle, e garantisca un’adeguata compensazione dei danni“.

“Tuttavia, a volte ho l’impressione che molti Stati in questa sala siano più vicini agli interessi delle imprese rispetto a quelli delle persone nel Sud del mondo. Noi rifiutiamo di essere la popolazione sacrificata che permette ai Paesi più ricchi di vivere nell’abbondanza. Presidente, stiamo ancora aspettando giustizia. Io sto ancora aspettando giustizia“.

Buona parte delle speranze e delle aspettative di giustizia di Juana, di Marina, degli attivisti e delle vittime di questo fenomeno sono dunque riposte nel diritto internazionale. La richiesta alle Nazioni Unite e al Gruppo di lavoro intergovernativo è di colmare l’attuale vuoto normativo, adottando adeguati meccanismi e strumenti legali in grado di tutelare i diritti umani quando a compiere abusi e violazioni sono grandi imprese e multinazionali che, operando e muovendosi tra differenti contesti normativi nazionali, ne sfruttano gli squilibri e l’asimmetria e pongono in essere comportamenti predatori e irresponsabili in una sostanziale sfera di impunità.

Per avere un’idea di quanto siano diffusi e pericolosi questi comportamenti e quanto grave l’impunità che li circonda, è utile scorrere i dati raccolti dall’autorevole Business & Human Rights Resource Centre.Soltanto gli attacchi contro i difensori dei diritti umani e dell’ambiente (omicidi, rapimenti, agguati e altre forme di violenza fisica, intimidazioni, minacce, detenzioni arbitrarie, azioni legali vessatorie ecc.) collegati all’azione di imprese private sono stati più di 3.200 tra il 2017 e il 2021 (di cui 585 omicidi); più di un terzo dei casi sono collegati all’azione di imprese del settore estrattivo (minerarie e petrolifere). E si tratta solo di una parte delle situazioni di abuso e violazione dei diritti umani riconducibili direttamente o indirettamente alle attività di grandi imprese e multinazionali.

In risposta a questo fenomeno, a livello internazionale esistono ad oggi soltanto strumenti non vincolanti e basati sull’adesione volontaria. In particolare nel 2011 le Nazioni Unite hanno approvato i Principi Guida su imprese e diritti umani. E’ uno strumento che ha permesso di svolgere un’importante azione culturale e rappresenta una cornice di riferimento rilevante ed autorevole ma, essendo basato sulla volontarietà e l’autodisciplina, si è rivelato insufficiente per il contrasto efficace e universale di abusi e violazioni.

A partire dall’adozione dei Principi Guida ci sono stati dei passi avanti a livello nazionale o regionale. Ad esempio, alcuni Stati (come Francia e Germania) hanno introdotto o sono in procinto di introdurre, per alcune categorie dimensionali e settoriali di imprese, misure obbligatorie per la prevenzione e la rendicontazione dell’impatto delle proprie azioni in riferimento ai diritti umani e all’ambiente. Anche la Commissione europea ha recentemente presentato una proposta di direttiva sulla cosiddetta “due diligence” (dovere di diligenza) in materia di sostenibilità d’impresa che va nella stessa direzione. Per quanto incoraggianti, si tratta ancora di esperienze limitate nel numero e nella portata complessiva e rappresentano comunque una risposta parziale. Molte di queste iniziative sono state presentate durante l’ultima edizione del Forum su Imprese e Diritti Umani dell’ONU tenutosi dal 28 al 30 novembre, dove infatti esperti e rappresentanti della società civile hanno reiterato l’assoluta necessità di uno scatto ulteriore e di procedere speditamente verso una cornice normativa unitaria a livello internazionale, che sia legalmente vincolante e riduca i margini di impunità per le imprese.

Le negoziazioni del Gruppo di lavoro intergovernativo sono quindi cruciali per raggiungere questo traguardo e l’istituzione di un nuovo trattato che stabilisca regole in grado di vincolare al rispetto dei diritti umani la condotta delle imprese multinazionali, rendendole responsabili degli abusi e delle violazioni compiute sia direttamente che indirettamente lungo tutta la filiera produttiva e la catena di fornitura e anche in Paesi diversi da quello dove ha sede l’impresa. Questo dovrebbe concretizzarsi con meccanismi di prevenzione (come la “due diligence”) obbligatori e monitorabili, finalizzati ad assicurare che i soggetti e le comunità coinvolte dai progetti di investimento non abbiano un impatto negativo dalle operazioni produttive e commerciali e siano debitamente informate, così da per poter esprimere liberamente il proprio consenso o dissenso e proteggere i propri diritti e, in particolare nel caso dei popoli indigeni, le proprie terre e le risorse naturali vitali per la comunità. Oltre alle attività di prevenzione, dovrebbe essere sempre garantita la tutela delle vittime e l’accesso a meccanismi giudiziari e non giudiziari di denuncia, rimedio, compensazione e risarcimento dei danni causati dalle violazioni e dagli abusi.

Questi ed altri elementi di base contenuti nella bozza di un nuovo strumento giuridicamente vincolante oggetto dei negoziati intergovernativi[2] sono fondamentali per colmare il vuoto normativo a livello internazionale, nonché per superare la debolezza degli strumenti di tutela dei diritti umani a livello nazionale che si riscontra in molti Paesi del Sud del mondo, dove il peso economico e politico e l’influenza delle grandi imprese e delle multinazionali trova meno argini e limitazioni.

Al momento è però difficile prevedere l’esito delle negoziazioni e quanto tempo richiederà la costruzione del consenso all’interno del Gruppo di lavoro intergovernativo. Infatti c’è ancora forte contrapposizione su molti aspetti della bozza di trattato e sul percorso in sé. La maggior parte delle contrarietà e delle riserve arriva da Unione Europea, Stati Uniti ed altri Paesi occidentali, dove peraltro hanno sede molte delle più grandi ed influenti multinazionali, ma anche altri grandi Paesi come Russia e Cina esprimono perplessità o diffidenza. Pur se in una fase negoziale piena di incertezze e divergenze politiche e procedurali, durante quest’ultima sessione del Gruppo di lavoro sono comunque emersi aspetti positivi, come la partecipazione ai negoziati da parte di molti Stati di tutti i continenti, il maggior coinvolgimento di alcuni Paesi tra cui ad esempio gli Stati Uniti (seppur fermi su posizioni scettiche), la discreta compattezza dei Paesi del Sud del mondo in alcuni passaggi cruciali, e la determinazione e vivacità delle organizzazioni della società civile e delle loro proposte. L’opposizione e le resistenze verso un trattato legalmente vincolante rimangono forti e difficili da superare, in compenso cresce sempre di più la consapevolezza che la situazione di impunità attuale non è né accettabile né sostenibile.

Dietro quell’impunità ci sono le infinite storie di ingiustizie, abusi e violenze come quelle testimoniate da Juana e Marina. Sono tasselli del grande mosaico delle disuguaglianze globali, frutto di processi di globalizzazione economica incentrati prevalentemente sulla ricerca del profitto a tutti i costi e su approcci neocoloniali al controllo e allo sfruttamento delle risorse naturali, in cui sempre più rilevante è il ruolo delle grandi imprese private multinazionali e la loro influenza sulle istituzioni e le politiche pubbliche.

Alla velocità dei processi di globalizzazione dell’economia degli ultimi decenni non ha purtroppo corrisposto la stessa velocità nell’evoluzione del sistema dei diritti a livello internazionale. E’ dunque necessario impegnarsi e mobilitarsi per rendere democratici e partecipativi i processi di formulazione delle politiche globali e per introdurre norme vincolanti nel diritto internazionale che affermino la primazia dei diritti umani.

E’ quello che fanno Juana, Marina e tanti altri attivisti e difensori dei diritti umani con la loro lotta per arrivare ad un trattato legalmente vincolante per le imprese multinazionali in materia di diritti umani. E’ un percorso difficile e ancora lungo, eppure è anche da queste impervie strade che passa la costruzione di una società più giusta e di un’economia diversa “che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda” [3], quell’economia dal volto umano che Papa Francesco ci indica costantemente come orizzonte di una speranza concreta.


[1] Risoluzione 26/9 adottata il 26 giugno 2014 durante la 26° sessione del Consiglio ONU per i diritti umani.

[2] Attualmente è in discussione la terza versione revisionata della bozza di uno strumento giuridicamente vincolante a cura della Presidenza del Gruppo di lavoro intergovernativo.

[3] Dal Messaggio di Papa Francesco ai partecipanti ad “Economy of Francesco”, 1 maggio 2019.