Pochi giorni fa, il 21 marzo, nel mondo si è celebrata la Giornata Internazionale delle Foreste, ricorrenza istituita dalle Nazioni Unite per ricordare questo ecosistema che subito nell’immaginario richiama alla vita nel suo significato più profondo e selvatico, primitivo, fatto di biodiversità animale e vegetale che definisce un insieme di colori e di bellezza.
Ecosistemi vitali per il Pianeta, polmoni verdi di cui mai come in questo momento è necessario ricordare l’importanza globale visto il rischio crescente in cui vengono messi dalla deforestazione selvaggia e dal consumo di suolo.
Proprio il 21 marzo il Mipaaf ha presentato il primo “Rapporto Nazionale sullo Stato delle Foreste e del Settore Forestale”: le foreste italiane crescono velocemente e oggi ricoprono il 36,4% del territorio nazionale, ossia quasi 11 milioni di ettari. Eppure non sappiamo gestire al meglio tutto questo verde, tanto da dipendere dai boschi esteri per la produzione di legno anziché imparare ad aumentare il prelievo legnoso in modo sostenibile.
Alberi non ne tagliamo, dunque, ma nemmeno adottiamo adeguate politiche di tutela. Sono infatti in aumento gli incendi boschivi: solo nel 2017 sono andati a fuoco 162.363 ettari di terreno. E non dobbiamo dimenticare l’assenza di veri piani di adattamento ai cambiamenti climatici che, con maggiore frequenza, potrebbero colpire il nostro territorio con eventi estremi, come la tempesta Vaia che lo scorso autunno ha abbattuto più di 8 milioni di metri cubi di alberi tra Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino.
Ma se da noi i problemi sono di tipo prevalentemente gestionale, fuori dai confini italiani le foreste incontrano ostacoli molto più estesi e di difficile risoluzione.
Uno fra questi è di sicuro il fenomeno noto come ‘land grabbing’, testualmente ‘accaparramento delle terre’, ossia quel processo per cui aziende o governi di altri Paesi acquistano grandi porzioni di terra a discapito delle comunità che la lavorano, ci vivono e ne usufruiscono.
Si tratta di un fenomeno che, evidentemente, ‘allarga la forbice’ che questa campagna vuole invece chiudere: i Paesi che svendono questi terreni sono ovviamente quelli più poveri, quelli nel Sud del mondo, mentre chi ne approfitta sono i paesi più “sviluppati”, semplicemente i più ricchi.
La terra è diventata la forma di investimento più succulenta per gli speculatori finanziari d’Occidente che, negli ultimi anni, hanno fatto piazza pulita di interi appezzamenti di terreno in Africa (che da sola rappresenta la metà dei Paesi depredati), Asia e America Latina. Si scelgono le zone più povere del mondo, in cui i governi sono più corruttibili ma il clima è più favorevole e, una volta ottenuta la concessione, parte quel processo che, tra una ruspa e un incendio, trasforma boschi e foreste in complessi industriali, poli di estrazione o monoculture intensive.
Le multinazionali che producono carta e olio di palma sono indicate come le principali responsabili di questo fenomeno, ma certamente non sono le sole. Le vittime sono invece le piantagioni, gli animali, gli esseri umani che in alcuni casi vengono letteralmente tolti di mezzo come accadde nel settembre 2017, quando sei contadini peruviani furono uccisi da 40 uomini armati e incappucciati, con il forte sospetto legato proprio all’accaparramento di terre per la coltivazione di palme da olio.
Parlando di foreste, il pensiero non può che correre all’Amazzonia che, nei suoi quasi 7 milioni di km quadrati, ospita il 10% di tutte le specie viventi conosciute, fornisce il 20% dell’acqua dolce del Pianeta e trattiene al suolo tra i 90 e i 140 miliardi di tonnellate di carbonio, ossia il 10% del totale planetario.
Un tesoro condiviso da 9 nazioni, 35 milioni di persone, quasi 3 milioni di indigeni e 390 popolazioni diverse, con 240 idiomi appartenenti a 49 famiglie linguistiche diverse. Una ricchezza sconfinata, un bene comune globale messo a rischio per l’interesse di pochi.
La deforestazione in Amazzonia è aumentata del 75% tra il 2012 e il 2015, e di un ulteriore 14% nel 2018. Ad essere colpite, sono state soprattutto le aree in cui si è tentato di creare colture intensive, ossia Parà, Mato Grosso e Rondonia. Nell’ultimo anno, sono scomparsi 7900 km quadrati di foresta, equivalenti all’intera regione del Friuli Venezia Giulia.
Un fenomeno che, purtroppo, potrebbe subire un’ulteriore accelerazione, visto l’atteggiamento del nuovo presidente brasiliano Jair Bolsonaro che ha manifestato più di un’apertura allo sfruttamento della foresta, in un ritorno al passato in cui le ONG sono destinate a vedere ridotto il proprio ruolo a difesa dell’ambiente e in cui anche i cambiamenti climatici vengono messi in discussione, tanto da ritirare la candidatura del paese ad ospitare la prossima Conferenza delle parti sul clima (COP 25).
Violare e saccheggiare la foresta non vuol dire “solo” mettere a rischio specie animali e vegetali, ma popoli e culture, considerate inferiori solo perché non si muovono all’interno di contesti socio-economici più sofisticati.
Un’invasione che si traveste da globalizzazione inclusiva, ma che in realtà genera un processo di annullamento delle identità, delle radici, della storia, in una spenta omologazione che accentua differenze fatte di esclusione e di disadattamento. Una minaccia che, come ha dichiarato il Santo Padre nel suo viaggio in Amazzonia, viene da politiche che non tengono in considerazione l’essere umano in nome dello sfruttamento delle risorse naturali.